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La sua carriera come fotogiornalista è iniziata per testimoniare cosa accadeva per le strade di Port-au-Prince: violenze, tensione politica, proteste. Richard Pierrin ha 23 anni ed è oggi uno dei più conosciuti fotografi emergenti haitiani. Ha pubblicato per le principali agenzie mondiali come Afp e Getty e le sue foto sono apparse su El Pais, Time Magazine, Bbc. Ha vinto premi ad Haiti e internazionali ma, quando lo racconta, Pierrin minimizza: «Ho qualche esperienza» dice.
Lo raggiungiamo al telefono a Washington DC, negli Stati Uniti, dove vive oggi: «Ho dovuto lasciare Haiti per motivi politici - racconta -. Non potevo più fare il mio lavoro, era diventato troppo pericoloso».
Richard Pierrin, se tu dovessi scegliere una tua fotografia a cui sei particolarmente legato, quale sarebbe?
Sono molto affezionato a tutte le mie fotografie perché vivo il mio lavoro come una responsabilità e ogni immagine ha un significato unico per me. Ricordo però in particolare una fotografia scattata durante una protesta a Port-au-Prince: la protagonista era una donna ferita dalla polizia e circondata da altre persone che cercavano di aiutarla. Lei è sopravvissuta, ma quel giorno sono morte 12 persone durante le manifestazioni.
Come descriveresti la situazione attuale della capitale, Port-au-Prince?
Adesso è davvero dura. Ho visto la situazione peggiorare nel tempo: io sono nato a Petit-Gôave, una località a 60 chilometri da Port-au-Prince e mi sono trasferito nella capitale per l'Università, alcuni anni fa. Già allora la situazione era molto difficile, ma ora è diventata folle. Seguo sempre le notizie e so che l’80% della capitale è controllata dalle bande armate, che bloccano gli accessi alla città. Anche l'aeroporto è stato chiuso. Non è così in tutto il Paese, fortunatamente ci sono ancora alcune province dove poter andare, come Cap-Haïtien o Jérémie. Ma nella capitale la violenza ha la meglio.
Immaginiamo che essere un fotoreporter ad Haiti sia molto complicato…
Sì, è uno dei motivi per cui ho dovuto lasciare il Paese, e ora è pericoloso più che mai. Nessuno sembra capire quello che stai facendo con il tuo lavoro e con le tue fotografie: né le persone, né le gang, né i politici. Tutti si preoccupano per le immagini che scatti, magari si sentono minacciati, e nessuno ne vede l’utilità. Il risultato è che sei molto solo, non sei ascoltato e ti ritrovi in una posizione molto delicata.
Di cosa ha bisogno Haiti?
La prima urgenza è la sicurezza, senza dubbio. Poi ripristinare il sistema sanitario e svolgere le elezioni per avere un nuovo governo (attualmente ad Haiti c’è un comitato di transizione nominato dopo la conquista della capitale da parte delle gang, con il compito di portare il paese verso una stabilità politica, ndr). Ma sì, prima di tutto è necessario riportare la sicurezza. Se devo pensare a un modo in cui anche gli altri Paesi possono aiutare Haiti, è proprio mandare persone che possano agire in questo senso e contrastare le gang. Qualcosa è stato fatto con il contingente Onu che è arrivato, ma non è assolutamente sufficiente: ci vorrebbe uno sforzo decisamente maggiore.
Di Haiti si racconta sempre la violenza, la povertà, l’instabilità. C’è un altro racconto possibile?
Certo, Haiti ha tanta bellezza. Io ho avuto modo di viaggiare molto nel mio Paese e ci sono luoghi che sono interessanti e ricchi di storia, come Cap Haitien o Citadelle Laferrière. Ci sono spiagge meravigliose, una grande varietà di cibi da assaggiare e tante storie personali che hanno molto da dire. Haiti non è solo le gang o la violenza, c’è anche tutto un altro lato che non viene mai visto. Il mio sogno è tornare ad Haiti e andare a documentare proprio queste storie, costruire in immagini e parole una narrazione diversa dell’isola e pubblicarla sui giornali internazionali. Adesso non è possibile per me rientrare nel mio Paese, ma questo rimane un grande desiderio.
Richard Pierrin sta continuando il suo lavoro di fotografo da Washington Dc, dove sta documentando la vita dei migranti haitiani. In particolare, sta svolgendo una masterclass con il World Press Photo. I suoi lavori sulla comunità haitiana ad Atlanta si può vedere qui.