sabato 15 maggio 2010
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«Non andatevene, perché altrimenti nessuno saprà mai quello che succede qui». È un invito deciso quello che rivolge ai reporter una guardia delle Camicie rosse, una quarantenne dalla taglia forte e dal piglio deciso. Facile a dirsi. La vita sulle barricate a ridosso del grande viale Rama IV, a pochi metri da Silom Road e dal quartiere delle finanze, è quella dei topi cacciati dal gatto. Ci si sposta sempre piegati, sempre cercando angolazioni e coperture che evitino di finire sotto il tiro dei cecchini che regnano sovrani dai piani alti che si affacciano sulle muraglie di pali, copertoni e filo spinato di Sala Daeng: il presidio. Lo scontro ci sarà: a partire dagli accessi fortificati, per arrivare alla grande croce formata dalla congiunzione delle strade Sukhumvit e Ratchadamri che ha al centro l’incrocio di Ratchaprasong. Lo scontro ci sarà, prima o poi. Sulle barriere affacciate sulle ricche strade di Prathunam, Pathumwan, Sala Daeng e Wittayu, i cecchini scenderanno dai tetti. Le truppe antisommossa arriveranno dalle stazioni della metropolitana e dalla ferrovia sopraelevata, e allora sarà un’altra storia. Ma lo scontro “asimmetrico”, tra forze dell’ordine e manifestanti, continua ad avere regole semplici e brutali nelle aspettative della Camicie rosse. «Finché si resterà a distanza, polizia e soldati avranno il vantaggio delle armi da fuoco e della mobilità, ma quando si arriverà allo scontro diretto non ci sarà storia», giura Jack, che di professione aggiusta orologi e modella chiavi ma che da due mesi è approdato in questa metropoli alla deriva dal suo mare sulla costa orientale. Allora a contare saranno la rabbia antica e la tensione accumulata sotto il fuoco dei cecchini. Una reazione affidata ai pali di bambù appuntiti come lance, ai coltellacci, alle spranghe, alle pietre che hanno ammassato sotto la palizzata. Ieri gli elicotteri hanno sorvolato a lungo i bivacchi dei “rossi”: prendendo fotografie, fornendo dati a chi stava a terra e zigzagando per schivare facilmente i fuochi d’artificio sparati dai dimostranti: irrisoria contraerea per gli elicotteri d’assalto.I rivali si insultano, osservano e colpiscono come appartenessero a due mondi diversi.Ci sono troppe «mani invisibili» e troppi «uomini in nero» pronti ad accogliere le esigenze degli uni e degli altri. È successo giovedì sera al militare “rosso” Khattiya Sawasdispol, colpito da un cecchino vicino alle barricate: è in coma. Una certezza, davanti al mistero (finto) sui mandanti che hanno schierato i cecchini. Come chi giovedì notte ha posto una sostanza tossica nel caffè distribuito ai “combattenti”: in trenta sono finiti in ospedale, decimando le difese mai sufficientemente guarnite del popolo rosso. Perché negarlo? Negli accampamenti e sulle barricate, i giornalisti e i fotoreporter stranieri sono accolti e vezzeggiati, unica speranza per dare visibilità alle giornate interminabili dei bivacchi. E per rendere – con l’obiettività di chi si avvicina a questa realtà fatta di contraddizioni – la tensione dello scontro e la pietà per le vittime. E la realtà resta fatta di rischio. Ieri, nel primo pomeriggio sulle barricate sono arrivate una, due scariche prolungate di fucile M16, poi scoppi di granate lanciate dal parco Lumpini. Nella fuga generale, due colleghi stati colpiti, uno ferito alla gamba e uno al fianco. Prima di loro era toccato a un altro, ferito alla mano da un cecchino.Il giorno ha almeno il dono della visibilità, il respiro del certo; nella notte imminente Ratchaprasong e i fronti del quadrilatero sono invece un’altra dimensione del vivere e, soprattutto, del sopravvivere. Si resta, per puntiglio, mestiere e curiosità, nel tanfo delle latrine e delle immondizie che si accumulano nell’afa insopportabile.
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