mercoledì 22 maggio 2024
Dall'intesa spinta da San Giovanni Paolo II fino all'accordo voluto da papa Francesco che ha fatto scuola nella diplomazia
L'incontro in Vaticano tra Papa Francesco e, alla sua sinistra, l'allora presidente israeliano Shimon Pers e, alla sua destra, il presidente palestinese Abu Mazen

L'incontro in Vaticano tra Papa Francesco e, alla sua sinistra, l'allora presidente israeliano Shimon Pers e, alla sua destra, il presidente palestinese Abu Mazen - Ansa

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Era il 13 maggio del 2015 quando per volontà di Papa Francesco la Santa Sede annunciò di aver compiuto tutti i passi per lo storico riconoscimento dello Stato di Palestina. Un evento diplomatico che ha aperto la strada al riconoscimento internazionale. Quattro anni dopo 138 dei 193 stati membri delle Nazioni Unite avevano riconosciuto la Palestina. E dalla prossima settimana il numero crescerà con l’accordo annunciato anche da Irlanda, Norvegia e Spagna.


Il 16 maggio 2015, tre giorni dopo l'annuncio avvenuto nella ricorrenza della Madonna di Fatima, il presidente Abu Mazen fece visita a Papa Francesco che lo ricevette ufficialmente come «Capo di Stato». Il giorno dopo il Pontefice canonizzò i primi due santi palestinesi dei tempi moderni, la carmelitana Maria di Gesù Crocifisso (Mariam Bawardi) e Marie-Alphonsine Ghattas, fondatrice delle Suore del Rosario.

L’intesa vaticana del 2015 segue “l’Accordo Base” che era stato firmato tra la Santa Sede e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) il 15 febbraio 2000, nei primi mesi del Giubileo voluto da san Giovanni Paolo II, precursore dell’iter diplomatico coronato anni dopo. L’accordo è costituito da un Preambolo e da 32 articoli in 8 capitoli. Riguarda aspetti essenziali della vita e dell’attività della Chiesa nello Stato di Palestina, riaffermando nello stesso tempo il sostegno per una soluzione negoziata e pacifica della situazione nella regione. L’anno prima, l’8 giugno del 2014, Papa Francesco aveva invocato «il coraggio della pace, la forza di perseverare nel dialogo ad ogni costo, la pazienza di tessere giorno per giorno la trama sempre più robusta di una convivenza rispettosa e pacifica».

Tra i punti chiave presenti nell’intesa, l’obiettivo della “two-State solution”, due stati per due popoli rimarcando il significato non solo simbolico di Gerusalemme, il suo carattere sacro per ebrei, cristiani e musulmani ed il suo «universale valore religioso e culturale - scrisse l’Osservatore Romano - come tesoro per tutta l’umanità, gli interessi della Santa Sede in Terra Santa».

Come ebbe a scrivere padre David Neuhaus, corrispondente da Israele per “La Civiltà Cattolica” e membro della comunità dei gesuiti della Terra Santa, già dopo la “Nakba”, l'esodo forzato della popolazione araba palestinese seguente alla fondazione dello Stato di Israele, «dopo il 1948 la Santa Sede ha espresso ripetutamente profonda preoccupazione sia per lo stato dei Luoghi Santi, sia per il destino dei cristiani palestinesi, molti dei quali hanno perso la casa lottando a fianco dei loro connazionali musulmani nella prima guerra arabo-israeliana del 1948».

Già l’11 febbraio 1948, tre mesi prima della Dichiarazione della creazione dello Stato d’Israele, la Santa Sede aveva aperto la sua Delegazione Apostolica (la Rappresentanza Pontificia, un’ambasciata a tutti gli effetti) “a Gerusalemme e in Palestina - si legge negli atti ufficiali dell’epoca -, Trangiordania e Cipro”. Segno della lungimiranza con cui la diplomazia vaticana guardava avanti, appena dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, e menzionava nei documenti la definizione di “Palestina”.

Quando Papa Paolo VI visitò la Terra Santa nel 1964, incontrando le autorità politiche sia israeliane sia giordane, non fece esplicita menzione dello Stato di Israele o dei palestinesi. «Fu il Concilio Vaticano II - ricorda ancora Nehaus in un suo saggio del 2015 - a inaugurare una nuova era di dialogo con gli ebrei, con la Dichiarazione Nostra aetate, in cui si dice che” la Chiesa, che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio comune con gli Ebrei, e mossa non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni, le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque” . Il documento non faceva riferimento alle realtà politiche contemporanee in Terra Santa».

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