domenica 17 dicembre 2023
Oltre 4.500 i deportati in Russia. I familiari in piazza. Il coraggio di Olena che ha il figlio di 24 anni in mano russa da 600 giorni: ricostruisce gli ospedali bombardati nel nome del suo Dmytro
A Kiev una manifestazione dei parenti dei prigionieri di guerra che chiedono più attenzione

A Kiev una manifestazione dei parenti dei prigionieri di guerra che chiedono più attenzione - Ansa

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La neve che copre Kiev non smorza i nove rintocchi che ogni mattina il più alto campanile di Pechersk-Lavra diffonde. Nove come gli anni di guerra con Mosca che per l’Ucraina non è cominciata nel febbraio 2022 con l’invasione dell’intero Paese, ma nel 2014 quando si sono accese le tensioni in Donbass. Il suono che tutti i giorni parte dalla cittadella-santuario affacciata sul fiume Dnepr è un monito: a non dimenticare i prigionieri di guerra. «Militari catturati, civili detenuti illegalmente, bambini deportati», racconta l’archimandrita Avraamiy.

Il santuario di Pechersk-Lavra dove ogni giorno suona la campana per ricordare i prigionieri di guerra

Il santuario di Pechersk-Lavra dove ogni giorno suona la campana per ricordare i prigionieri di guerra - Gambassi

Non è un caso che la campana scelta per vincere l’oblio all’interno della fortezza religiosa sia stata ribattezzata la “campana della memoria e della speranza”. Suona dal 5 dicembre per volere del sacerdote entrato a far parte della Chiesa ortodossa dell’Ucraina, staccatasi nel 2018 dalla Chiesa di matrice moscovita a cui il governo sta sottraendo anche il celebre monastero nel cuore della capitale che con le sue grotte è il cuore della spiritualità ortodossa slava. «Chiediamo al Signore che ci conceda al più presto la pace», spiega il religioso mentre scruta il campanile della Lavra.

La protesta di Kiev dei familiari dei prigionieri di guerra

La protesta di Kiev dei familiari dei prigionieri di guerra - Ansa

Con il suo gesto l’archimandrita si è fatto interprete di un sentimento sempre più diffuso fra le migliaia di famiglie toccate dal dramma della prigionia in terra nemica: quello di essere abbandonate a se stesse. A Kiev si stanno moltiplicando le manifestazioni. Di sensibilizzazione e di protesta, insieme. Prima a Maidan, la piazza simbolo della metropoli e della “rivoluzione della dignità” di dieci anni fa, poi lungo le sponde del Dnepr sono tornate le mogli e le madri dei soldati del battaglione Azov che si era immolato per fermare l’avanzata russa a Mariupol. «Gli scambi dei prigionieri si diradano e rallentano», sostiene preoccupata Natalia Kravtsova, in prima fila con il cartello “Libertà”. A fine novembre le autorità nazionali avevano annunciato che la Russia avrebbe sospeso ogni trasferimento. È toccato al presidente Zelensky rassicurare che la “mediazione” proseguiva. E venerdì da Mosca è arrivata la conferma di Putin. Secondo i dati diffusi il mese scorso dal ministero per la reintegrazione dei territori occupati, sono 3.741 i militari ucraini ostaggio del Cremlino e 763 i civili; per il commissario ai diritti umani del Parlamento, si supera quota 25mila. Gli scambi hanno portato al rimpatrio di 2.430 connazionali. Ma i “senza divisa” rientrati sono appena 139. Perché Kiev e Mosca preferiscono restituirsi i soldati: più utile e più d’impatto.

La dottoressa Olena Yuzvak che ricostruisce gli ambulatori sanitari bombardati nel nome del figlio Dmytro catturato dai russi

La dottoressa Olena Yuzvak che ricostruisce gli ambulatori sanitari bombardati nel nome del figlio Dmytro catturato dai russi - Avvenire

Lo sa bene Olena Yuzvak che da oltre 600 giorni ha suo figlio Dmytro in mano russa. «Ha 24 anni. Si era laureato in biotecnologie l’8 febbraio, sedici giorni prima che iniziasse l’invasione. Mi sono appellata anche a Putin perché liberi chi non c’entra nulla con questa guerra», dice dall’ufficio della clinica ospedaliera che dirige a Gostomel. Sulla parete alle sue spalle un crocifisso. «Sono cattolica di rito romano. Ho fiducia in ciò che il Papa e tutta la Chiesa stanno facendo per tentare di riportare a casa chi è stato preso», sospira la dottoressa. È l’ennesima speranza. Ha provato in tutti i modi a scalfire il muro di gomma. Ha fatto arrivare il suo dolore perfino al Consiglio di sicurezza dell’Onu dove il rappresentante della Gran Bretagna ha raccontato davanti all’omologo russo la deportazione del «mio ragazzo», come lei lo definisce. «Nulla si è mosso. I russi lo ritengono un militare, nonostante sia soltanto un civile. Un giovane appena uscito dall’università e rapito dall’esercito nemico».

La dottoressa Olena Yuzvak con il figlio Dmytro che da 600 giorni è in mano russa

La dottoressa Olena Yuzvak con il figlio Dmytro che da 600 giorni è in mano russa - Avvenire

È una madre coraggio, Olena, che in nome del suo Dmytro sta ricostruendo gli ambulatori sanitari distrutti dai bombardamenti. «Lo faccio per lui, per dimostrare che il male non ha l’ultima parola». Ne ha riaperti quattro nel Comune dove vive e lavora come medico. «Ho trovato le risorse all’estero. Il governo non ne ha. Grazie a Greenpeace ci sono anche i pannelli solari». Erano stati tutti ridotti in macerie. Come l’intero territorio di Gostomel, la cittadina a trenta chilometri da Kiev dalla quale le truppe di Mosca hanno tentato l’assalto verso la capitale. È stata conquistata fin dai primi giorni del conflitto, con il suo aeroporto utilizzato come testa di ponte. E poi devastata all’indomani della ritirata, dopo oltre un mese di occupazione. «Ci hanno lasciato i cadaveri per la strada», ripercorre Olena che ha salvato almeno una quarantina di feriti. «Uno mi è morto fra le braccia. Aveva bisogno di essere trasportato in ospedale: mi è stato impedito».

Uno degli ambulatori ricostruiti da Olena Yuzvak nel nome del figlio Dmytro catturato dai russi

Uno degli ambulatori ricostruiti da Olena Yuzvak nel nome del figlio Dmytro catturato dai russi - Avvenire

A distanza di un anno e mezzo, case, palazzi, fabbriche, negozi portano ancora i segni degli attacchi. «Siamo una comunità profondamente ferita», sottolinea la dottoressa. E ciò che vive la sua famiglia ne è la prova. Tutta catturata dai soldati d’occupazione. Era il 18 marzo di un anno fa. «Penso per la soffiata di un collaborazionista», ipotizza la primaria. Suo marito è un tenente colonnello in pensione. «Ci hanno incappucciato e trascinato via di casa. È stata l’ultima volta che ho sentito la voce di mio figlio». Lei sarebbe stata rilasciata il giorno successivo. Suo marito Oleg e Dmytro trasferiti in Bielorussia. «Oleg è stato scambiato dopo un mese, il 18 aprile. È rientrato scheletrico, con la gamba ferita da una pallottola». I marchi delle torture.

La foto segnaletica di Dmytro Yuzvak Volodymyrovych, il neolaureato di 24 anni che da 600 giorni è prigioniero dei russi

La foto segnaletica di Dmytro Yuzvak Volodymyrovych, il neolaureato di 24 anni che da 600 giorni è prigioniero dei russi - Avvenire

Sul cellulare Olena mostra un’immagine: è la foto segnaletica del figlio. «L’hanno trovata su Telegram. I compagni di reclusione di Dmytro che sono già stati liberati confermano che si trova nel campo d’internamento di Novozybkov, nella Russia sud occidentale, vicino alla Bielorussia. C’è chi lo ha visto; chi ha sentito il suo nome agli appelli. Le ultime notizie su di lui risalgono a febbraio: lo descrivono in pessime condizioni di salute e, dopo le percosse che gli hanno inflitto, è stato spostato nel blocco dei malati». Il suo cuore di madre le fa dire che è ancora vivo. «Mi affido al Signore. E ho deciso di non piangere», sussurra. Stacca dal lavoro ogni sera alle otto. «Gli invalidi, i feriti di guerra e i pazienti oncologici sono oggi le mie priorità». Riprende fiato. «In loro vedo mio figlio. Così tengo accesa quella fiammella interiore che mi dà la forza di dire: Dmytro tornerà fra noi».

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