venerdì 17 aprile 2009
Secondo il governo locale i negoziati sono condotti attualmente dalle autorità del Puntland. Frattini esclude il ricorso a blitz armati per il rilascio dei dieci connazionali e degli altri sei marinai del Buccaneer: «Non si rischia la vita degli ostaggi».
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Italia non seguirà la via americana, né quella francese, per liberare l’equipaggio del Buccaneer, l’imbarcazione sequestrata dai pirati somali la scorsa settimana. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha infatti escluso il ricorso a blitz militari: «Non vi sarà nessuna operazione che possa mettere a repentaglio la sicurezza degli ostaggi». Resta quindi solo la strada della trattativa che, secondo fonti locali, viene condotta dalle autorità della regione semi-autonoma somala del Puntland in coordinamento con il governo di transizione somalo. Ieri il primo ministro somalo, Omar Abdirashid Ali Sharrmake, ha assicurato che i negoziati per arrivare alla liberazione dell’equipaggio sono in corso. da parte di Mogadiscio, insomma, sembra esserci tutta la volontà per una rapida e indolore conclusione della vicenda. Intanto ieri mattina c’è stato un nuovo contatto telefonico tra l’armatore Claudio Bartolotti e il comandante del rimorchiatore, Mario Iarlori, che ha assicurato che i dieci membri italiani dell’equipaggio e i loro sei colleghi (cinque romeni e un croato) stanno bene. «I contatti sono quelli giusti, sappiamo che la zona è controllata da alcuni capi tribali, vi è un contatto strettissimo con le autorità somale che hanno avuto con noi degli scambi di informazioni importanti – ha precisato Frattini – Confidiamo nel fatto che i nostri connazionali, ma anche gli altri membri dell’equipaggio, possano essere liberati rapidamente. La nave è ormeggiata al largo delle coste somale, sappiamo che è visibile, è probabilmente sorvegliata anche da terra».Nei giorni scorsi la Marina francese aveva liberato con un blitz due ostaggi sequestrati su uno yacht, ma nello scontro armato era rimasto ucciso un terzo prigioniero. I Navy Seals statunitensi, dal canto loro, erano intervenuti per liberare il capitano del mercantile americano Maersk Alabama, Richard Phillips (giunto ieri in Kenya), uccidendo tre sequestratori e catturandone uno. Frattini ha sottolineato di non voler «giudicare le azioni degli altri». Ma, ha aggiunto, «la via italiana è assicurare che non via sia pericolo per gli ostaggi». Intanto sul fronte antipirateria sembrano ormai muoversi con decisione gli Stati Uniti, contro i quali i pirati somali hanno minacciato nei giorni scorsi «vendetta» dopo il blitz Usa che ha portato alla liberazione del capitano Phillips. Il Dipartimento di Stato ha annunciato un piano che prevede, tra i suoi punti, il congelamento dei beni dei banditi. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha poi lanciato un appello alla collaborazione della comunità internazionale per far fronte al fenomeno della pirateria e ha annunciato che un suo inviato parteciperà alla Conferenza dei donatori per la Somalia che si terrà a Bruxelles la prossima settimana. «Avremo pure a che fare con un crimine da diciassettesimo secolo, ma dobbiamo affrontarlo con mezzi da ventunesimo secolo – ha detto la Clinton – Il nostro inviato lavorerà con gli alleati per aiutare i somali a contribuire a colpire le basi dei pirati e creare incentivi che tengano i giovani lontani dalla tentazione di unirsi a queste bande». Washington valuterà anche come fare per congelare i beni dei pirati, e far sì che «gli Stati si assumano la responsabilità di perseguire e incarcerare i pirati catturati».Ma dal (fragile) governo somalo è giunto un altro appello: non manca la volontà, ma i mezzi per combattere il fenomeno. «Il governo somalo vuole impegnarsi in un seria lotta contro i pirati e porre fine alle loro gesta che hanno guastato l’immagine della Paese nel mondo» ha detto Abderrahman Abdel Chak-our, ministro somalo per la Pianificazione e Cooperazione internazionale, a margine di una riunione dell’Unione africana a Tripoli. «Siamo pronti a creare una forza navale che combatta i pirati – ha proseguito il ministro – ma abbiamo bisogno del sostegno internazionale nella logistica, nei finanziamenti e nell’addestramento. La battaglia non deve cominciare in mare, ma sulla terra: è lì che bisogna concentrare gli sforzi della comunità internazionale».
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