giovedì 28 ottobre 2010
Lo sciopero della Giustizia peruviana blocca di nuovo la sentenza su padre Bartolini, il difensore dei nativi. Intanto cinquemila indigeni bloccano il fiume Maranòn, nella regione di Loreto. Accusano le compagnie di averli ingannati e di aver pure inquinato con il greggio il corso d'acqua per loro vitale. In azione navi della Marina. È una «partita» tra le due anime del Paese: quella che reclama investimenti e quella che vuole rispetto per la natura.
COMMENTA E CONDIVIDI
La lettura della sentenza è stata sospesa. Lo sciopero della Giustizia peruviana ha bloccato di nuovo la fine del processo nei confronti di padre Mario Bartolini, 71 anni, e altre tre persone. Il destino giudiziario del missionario italiano – da 35 anni nell’Amazzonia peruviana, a fianco di indios e contadini – è ancora incerto. La decisione del magistrato Julio Cesar Aquino Medina – del tribunale dell’Alto Amazonas – potrebbe slittare «di altri 15 giorni o un mese», spiega all’Avvenire l’avvocato di padre Mario, Constante Diaz. «Ciò che realmente ci preoccupa è la possibile strumentalizzazione politica del processo. Pare che la procura sia molto interessata ad una sanzione». Diaz ricorda che un mese fa un altro religioso (inglese) ha rischiato l’espulsione. Il problema, sostiene, è più ampio: «Temiamo che dietro ci sia la volontà di castigare la Chiesa amazzonica, per la sua difesa delle comunità native». La procura peruviana – che accusa Bartolini di un presunto delitto di istigazione alla rivolta – chiede per lui 11 anni di carcere (che comunque verrebbero annullati, visto che il religioso ha oltre 70 anni). Ma chiede anche l’espulsione. L’avvocato non crede si arriverà a tanto: «Al massimo penso che potrebbero condannarlo, per presunti danni, a un anno di arresti domiciliari. L’espulsione sarebbe uno scandalo». Ma di cosa è accusato precisamente il missionario italiano degli indios? «Dopo la tragedia di Bagua, alcuni cercarono un capro espiatorio. E lo trovarono in Bartolini. Il gruppo parlamentare dell’Apra presentò una denuncia, in riferimento ad un’omelia del religioso. Le sue parole sono state strumentalizzate».L’accusa è paradossale, afferma il legale: «Padre Mario durante lo sciopero indigeno del 2009 restò per un mese a fianco dei nativi, ma non per istigarli. Al contrario, ebbe un ruolo di intermediatore con le autorità, è stato sempre un interlocutore delle comunità e della polizia. Ha fatto di tutto per evitare gli scontri». Il parroco di Barranquita lo ha sempre detto: accetterà con tranquillità ogni tipo di sentenza. «È sereno – assicura l’avvocato – è voluto ritornare alla sua Barranquita. Ha la coscienza a posto». In appoggio a padre Bartolini, martedì sono scesi in piazza centinaia di indios: le comunità native dell’Alto Amazonas e Datem del Maranon hanno marciato fino alla sede del Potere Guidiziario di Yurimaguas per chiedere l’assoluzione del parroco. Il passionista, che da oltre tre decenni accompagna i gruppi indigeni e rurali di questa povera regione peruviana, è una voce scomoda per molti: nel 2006 si schierò con gli indios contro l’uso di alcuni territori da parte di una compagnia dedicata alla produzione del biodiesel. AMAZZONIA FERITAQuesta volta lo scenario è un fiume, non la foresta. Ma il problema di fondo non cambia. Almeno 5.000 indigeni amazzonici delle etnie shawi, achuar e awajun bloccano – da lunedì – il fiume Marañón, nella regione di Loreto. La zona non è lontana dai territori che furono al centro degli scontri del giugno 2009, ai quali è collegato il processo per presunta istigazione alla rivolta contro il missionario passionista italiano Mario Bartolini: la sentenza è stata rinviata. Gli indigeni questa settimana hanno deciso di paralizzare l’unica via di comunicazione della zona – il Marañón – utilizzando piccole imbarcazioni e corde che impediscono il passaggio delle lance «che trasportano i prodotti di prima necessità e portano i cittadini in altri luoghi», spiega Dennis Pashanase, portavoce degli indios in rivolta. Protestano contro la compagnia petrolifera argentina Pluspetrol: la accusano di averli ingannati, di aver promesso – in cambio dello sfruttamento degli idrocarburi dell’area – benefici che non sono mai arrivati. L’accusano anche di un recente incidente, in cui 300 barili di petrolio sono finiti nelle acque del fiume, inquinando la loro fonte di vita. «Si erano impegnati a darci dei benefici, ad appoggiarci in settori come l’educazione e la sanità. Invece, alla fine, erano solo parole. E questo ha creato l’indignazione della popolazione» denuncia Pashanase. La Pluspetrol rigetta le accuse. Nella zona sono arrivate alcune navi della Marina peruviana: nonostante le pressioni, gli indigeni non vogliono abbandonare la protesta. Come accadde a Yurimaguas nel 2009, anche questa volta gli indios manifestano contro il congelamento virtuale di una legge che obbligherebbe lo Stato a consultare i nativi quando una decisione politica ed economica riguarda i loro territori.È solo l’ennesimo conflitto che accende l’Amazzonia peruviana: uno dei territori più ricchi al mondo in biodiversità, ma anche un immenso bacino di risorse minerali, gas e oro nero. È qui che si gioca una dolorosa partita, che vede due Perù contrapposti: il Perù che reclama investimenti internazionali, accordi commerciali ed esportazioni (che teoricamente dovrebbero portare ricchezza per tutti), e il Perù che chiede di rispettare la natura, la casa degli avi, i boschi, i corsi d’acqua, i diritti ancestrali degli indios che vivono da sempre in queste terre. Il braccio di ferro fra due visioni di crescita distinte – praticamente opposte – va avanti da anni, ormai. Miniere, compagnie petrolifere, gasdotti: le polemiche si moltiplicano. I contrasti riguardano zone immensamente preziose dal punto di vista ambientale, che i nativi, le Ong, diverse organizzazioni internazionali e osservatori indipendenti vorrebbero proteggere da trivelle e inquinamento. Ma il governo di Alan Garcia è sostenitore di una ricetta differente: le esportazioni e gli investimenti di capitali stranieri dovrebbero portare vantaggi a tutti i peruviani. La vicenda del Marañón ricorda le proteste dello scorso anno, alle quali è legata la storia di padre Bartolini. Nell’aprile del 2009 gli indigeni dell’Amazonas iniziarono uno sciopero pacifico contro alcuni decreti legge collegati al Trattato di libero commercio fra il Paese sudamericano e gli Usa. Le norme – secondo le comunità native – avrebbero violato i diritti territoriali degli abitanti della zona e avrebbero potuto limitare il loro accesso al bene più prezioso: l’acqua. Gli indios reclamavano anche in quell’occasione il dovere dello Stato ad interpellarli. Il timore principale era una sorta di “privatizzazione” occulta di milioni di ettari di foresta amazzonica, sotto forma di concessioni. La Chiesa – attraverso la voce dei nove vescovi delle regioni amazzoniche – invocò il dialogo: «Negli interventi che riguardano le risorse naturali non devono predominare interessi di gruppo che trascinano irrazionalmente fonti di vita, danneggiando nazioni intere e la propria umanità». Per il governo, questi decreti avrebbero solo garantito sviluppo economico per tutto il Perù, anche per l’Amazzonia. Dopo diverse settimane di sciopero – con importanti vie di comunicazione completamente paralizzate – a Bagua intervenne in forze la polizia. La tensione degenerò in un bagno di sangue. Morirono 23 poliziotti e 10 indios. Padre Bartolini è stato accusato successivamente di avere istigato le proteste nella zona, in particolare a causa di un’omelia (pronunciata durante una messa per le vittime di Bagua) in cui dichiarò: «Dobbiamo chiamare assassini coloro che uccidono per denaro». Il missionario di Roccafluvione negli anni Ottanta fu minacciato dal Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, ma non abbandonò mai Barranquita. La sua gente, ora, prega perché non venga espulso dal Perù.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: