domenica 8 marzo 2009
Le testimonianze: gli estremisti del Sangh Parivar minacciano di «pesanti conseguenze chi osa andare alle funzioni. Impediscono anche di attingere l’acqua dai pozzi»
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Cristiani costretti a pagare una tassa di 500 rupie per ritornare alle proprie case, oppure – co­me nel villaggio di Batticola – obbliga­ti a vivere come indù. Donne cristiane oggetto di intimidazione perché in­dossino un lungo velo, una pratica di ascendenza bramitica per umiliare la donna. Numerosi anche gli episodi di “apartheid religioso”: se un cristiano sta viaggiando su una motocicletta e incontra un indù, è costretto a scen­dere dal motociclo e proseguire a pie­di per lasciar strada all’indù; quando vanno a fare un bagno in uno stagno, i cristiani devono mettersi in disparte affinché gli indù siano i primi a scen­dere in acqua. I cristiani «vengono mi­nacciati » dai membri del Sangh Pari­var (una delle organizzazioni indù più integraliste) di «pesanti conseguenze se osano andare in chiesa: se ci prova­no, incorrono in sanzioni come non attingere acqua ai pozzi o raccogliere la legna». È questo drammatico il quadro che monsignor Raphael Cheenath, arcive­scovo di Bhubaneswar, capitale dello Stato dell’Orissa, ha offerto in un det­tagliato documento di aggiornamen­to sulla situazione dei cristiani a Kandhamal, la regione dell’Orissa epicentro del pogrom anticristiano di agosto. Secondo il pre­lato, ancora oggi conti­nuano le minacce con­tro la minoranza cristia­na: «Molti fedeli vengo­no costretti a lasciare i campi profughi e torna­re nei loro villaggi dove è non sono al sicuro». Co­sì è avvenuto nel villag­gio di Gimangia, dove 17 cristiani hanno fatto ritorno alle loro case, ma sono stati spinti dai residen­ti indù a rientrare in uno dei tanti cam­pi profughi allestiti dalle autorità del distretto di Kandhamal, la località più colpita dalla violenza anticristiana. «In generale la situazione sembra no­male, ma è solo un inganno – prosegue monsignor Cheenath –. La gente può muoversi nei campi di raccolta, ma non può osare recarsi nei villaggi per­ché hanno ancora molta paura di su­bire attacchi o venire costretti a diven­tare indù: una cosa realmente acca­duta in numerosi casi. Anche i dirigenti del distretto non incoraggiano la gen­te a recarsi in certe località, come i vil­laggi di Kurtum­goda e Sankha­rakhole ». «La maggior par­te dei preti – continua l’arci­vescovo – che a­vevano abban­donato le pro­prie parrocchie per ragioni di sicurezza vi hanno fatto ritorno, ma l’amministrazione distret­tuale ha suggerito loro di limitare i pro­pri movimenti». E il prelato non si fa il­lusioni. «La mia opinione è che siamo coinvolti in una battaglia di lungo cor­so. Non ne vediamo la fine: alcune per­sone dall’estero mi chiedono se ci sa­ranno altri attacchi contro i cristiani in Orissa. E io rispondo: questo è il peri­colo che ci sta davanti». «Mi è stato raccontato – rivela – di in­contri segreti di membri di Sangh Pa­rivar tenutisi in tutto il distretto di Kandhamal. Le autorità, a parole, fan­no bene il loro la­voro. Ma sono in­teressate solo a ri­mandare indietro la gente nei villag­gi, però senza un’adeguata pro­tezione né i beni necessari». Monsignor Chee­nath stigmatizza anche il fatto che le autorità non abbiano mai individuato gli autori delle violenze: «Non c’è sta­ta alcuna indagine seria per trovare chi ha scatenato tutto e per punire i col­pevoli. Dietro questa mancanza di im­pegno dello Stato vi possono essere so­lo motivi legati alle elezioni di que­st’anno ». Costretti a pagare una tassa di 500 rupie per riavere la propria casa abbandonata durante le violenze, devono umiliarsi se incontrano un indù per la strada Un gruppo di cristiani in un campo di raccolta profughi vicino al villaggio di Raikia nell’Orissa (Reuters)
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