martedì 28 dicembre 2010
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Una torta bianca è stata posata in mez­zo al grande tavolo. Tra sorrisi e stret­te di mano, gli ospiti si scambiano gli auguri di Natale. Fra di loro c’è qualche volto che tradisce curiosità, e intanto si guar­da attorno. In quegli occhi, giovani, forse, c’è anche un pizzico di imbarazzo. Pregano un’altra religione ed è la prima volta che os­servano da vicino la casa del vescovo catto­lico, monsignor Joseph Cutts. La torta è morbida, soffice di crema. Come l’armonia che si respira nel refettorio ve­scovile di Faisalabad; ma è anche bianca, un colore preciso. Simbolo di una atmosfera che vuole essere ancora più cordiale e che ri­chiama l’immagine della colomba, quella della pace. La torta è stata portata dai rappresentanti della comunità islamica di Faisalabad, ter­za città del Pakistan. Regalo di Natale per monsignor Cutts, al vertice di una diocesi di 35mila chilometri quadrati, con 31 milioni di abitanti, e tra loro, sparse a macchia di leopardo, delle piccole enclave di 175mila cattolici. Tutti gli altri, tranne qualche esi­gua minoranza cristiano-protestante e hin­du, sono seguaci di Maometto e si rivolgo­no ad Allah. Undici sono i predicatori islamici che sie­dono accanto al vescovo. Ognuno di loro rappresenta la propria moschea, dunque la propria comunità. Certo, non sono tutti i rappresentanti dell’islam di Faisalabad. Quelli più radicali sono rimasti a casa loro. Ma questi undici, insieme al vescovo, fanno il dialogo interreligioso. È un incontro che non ha niente di sorprendente, di eccezio­nale o di singolare: è un un momento di fe­sta per Natale e dialogo che porta con se u­na lunga tradizione. Radici che affondano nel profondo della storia del Pakistan e nel­le vere relazione tra musulmani e cristiani. Un passato fatto di tolleranza, che, oggi, cer­ca di resistere a un presente dove sembra che tutto, invece, debba crollare da un mo­mento all’altro di fronte a un crescendo di intolleranza nei confronti delle minoranze religiose. Il Pakistan, certo, non è tutto dolce come la torta offerta dagli ulema di Faisalabad, o di altre comunità del “Paese dei puri”. Questa è una nazione, 170 milioni di abitanti, 95 per cento di religione musulmana, essa stessa vittima dalla sua fondazione, nel 1947, di o­scure lotte di potere che si intrecciano a cor­ruzione politica, traffici illegali, conflitti geo­politici e sfruttamento della religione come arma che ha portato alla morte prematura di importanti leader pachistani. Tensioni che resistono al cambiamento, soprattutto nel- le province tribali del Nord, al confine con il martoriato Afghanistan, dove la vita è anco­ra regolata dai criteri feudali dei clan che si combattono, anche loro in nome di un i­slam, che sia sunnita o sciita non ha impor­tanza, e che non rispondono al potere cen­trale. Mentre il terrorismo islamista si e­spande a macchia d’olio. «Il nostro non è un Paese facile per chi non lo conosce. Ma nonostante questi tempi dif­ficili, noi ulema intendiamo continuare a coltivare le radici della reciproca tolleranza, per farle crescere dentro un futuro che sia migliore. Lo scambio degli auguri è uno di questi momenti», evidenzia un anziano u­lema, in casa del vescovo Cutts. «Anche que­st’anno siamo venuti in segno di pace, a e­sprimere solidarietà e vicinanza ai cristiani – osserva il giovane predicatore dalla folta barba, ma senza baffi –, per ribadire che l’i­slam non ha nulla a che fare con chi perse­guita le minoranze religiose pachistane o con chi pratica ogni forma di terrorismo, spacciandolo per verità, attraverso falsi indottri­namenti ». Sono molti i capi religiosi mu­sulmani che i queste ore porta­no il loro auguri natalizio sicu­ramente in tutte le 114 parroc­chie cattoliche distribuite in Pakistan, per festeggiare la na­scita di Gesù Cristo. Con loro ci sono anche le autorità politiche e amministrative. Lo scambio di auguri è recipro­co e avviene sempre nei mo­menti più importanti delle ri­spettive celebrazioni. Quando i musulmani “rompono” il digiuno del ramadan, espo­nenti della chiesa cristiana ricambiano la cortesia di una visita: «Con una torta che sia dolce come la convivenza». Mentre nel refettorio del vescovo di Faisala­bad, gli ulema, predicatori del Gesù profeta di Allah, e il vescovo, del Dio Redentore dei credenti cristiani si scambiano impressioni e commenti su questo Natale, con ancora a­perto lo spinoso caso di Asia Bibi, la cristia­na accusata di avere insultato Maometto, e per questo condannata a morte da un tri­bunale, il cortile del vescovado, affacciato sulla cattedrale santi Pietro e Paolo, si va man mano riempiendo di fedeli per la preghiera di mezzogiorno. Un tiepido sole regala una bella giornata di festa, prima della messa. Sulle bancarella sono esposti croci­fissi, rosari, Vangeli in lingua ur­du, libri, canti religiosi e dvd sul­la vita di Gesù. Ci sono anche pezzi di storia del cinema ame­ricano: “I dieci comandamen-­ti”, “Quo vadis?”. I bambini pre­feriscono inseguire il carretto dei gelati, mentre i ragazzi un po’ più grandi vestiti alla moda, povera, dei marchi “made in china”, si pavoneggiano per cer­care di attirare lo sguardo delle ragazze. Purtroppo, pero, senza troppo grattare, sotto questa atmosfera di gioia che deve essere il Natale è facile rendersi conto della reale situazione di tensione e pericolo: basta rivolgere lo sguardo verso il cancello d’ingresso del vescovado . Ed è come entra­re in un’altra dimensione, una realtà cupa. Dove è la paura a dominare la vita quotidia­na del Pakistan delle minoranze, ma non so­lo, prigioniero del terrorismo fondamenta­lista che uccide in nome di un dio di morte. Posti di controllo, transenne, strade sbarra­te, poliziotti armati, tiratori sui tetti delle ca­se, agenti in borghese mischiati ai fedeli. E i metal detector a cercare eventuali armi sul­la gente in fila che vuole andare solo a pre­gare «Jesu paida hua hai», in lingua urdu «Gesù è nato». «Una militarizzazione dei luoghi di culto di noi cristiani, mai vista prima d’oggi. E non la ricordo neppure in passato – osserva un prete pachistano –. Lo hanno voluto a tutti i costi le autorità centrali e comunali. Si sen­tono sotto lo sguardo critico dell’opinione pubblica internazionale e non vogliono che accada nulla, visto che in Pakistan non pas­sa giorno senza che non si registrino vitti­me per colpa di qualche attacco suicida. Tutto è possibile dove la mente umana si fa malvagia». «Cioè capace di affidare una bomba a un po­vero disperato, come sempre più spesso ac­cade – spiega il sacerdote –, convincendolo che è la sua ricompensa, la sua redenzione, il suo riscatto dalla povertà e dall’ignoranza: è così che succede, è così che qualcuno ap­profitta della povera gente, facendogli cre­dere che gli altri sono il male. Tutte vittime innocenti, come lo sarà lo stesso incoscien­te attentatore, che va a uccidersi in mezzo a il dio di ognuno che predica solo la pace».
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