giovedì 2 aprile 2009
Anche Singapore, dopo Iran e Arabia, approva la cessione di parti del corpo dietro compenso. Gli stranieri potranno accedere al "servizio". E le denunce restano isolate: saranno i poveri del mondo a "donare" e i ricchi a "ricevere".
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E così, dopo Iran e Arabia Saudita, è la volta di Singapore: da qualche giorno, anche nella Città-Stato asiatica la vendita di organi umani tra viventi è una pratica legale. La disciplina è oculata: chi cede un organo (così prevede la legge) ha diritto al rimborso delle cure mediche, ai mancati guadagni e al risarcimento del danno psicologico. Con un solo voto contrario, il gioco è fatto. È prevedibile, del resto, che Singapore diventi rapidamente la meta preferita dei ricchi malati di ogni parte del globo, che accorreranno come api sul miele. Questa volta, infatti, l’accesso al "servizio" non è limitato ai cittadini dello Stato. Porte aperte, quindi, anche agli acquirenti stranieri.La scandalosa notizia, però, non ci ha realmente sorpresi. A fronte della turpe compravendita illegale di organi umani che va crescendo nel mondo (se fino a qualche anno fa Cina e India erano i centri principali di questa "linea commerciale", ora l’offerta si è molto ampliata, coinvolgendo Filippine, Brasile, Sud Africa e diversi Paesi dell’Europa dell’Est), si stanno facendo sempre più pressanti le nobili richieste affinché tale mercato venga legalizzato.Nell’opinione pubblica americana, ad esempio, si sta registrando un nuovo atteggiamento, non più critico verso tali comportamenti, che risultano sempre più accettati socialmente. Il cambiamento è sicuramente imputabile anche alle illustri voci che sostengono tale liberalizzazione, come quelle dell’economista Richard Posner e del premio Nobel Gary Backer.Questo moderno favore verso l’acquisto di parti del corpo umano è, del resto, coerente con quell’atteggiamento generalizzato che in buona parte del mondo occidentale va sempre più monetizzando la vita. Se si abortisce perché v’è la crisi, se si comprano i figli in provetta (giacché non vengono, o v’è il rischio che vengano male), se difficilmente ormai riusciamo ad avvicinarci ad handicap e malattia prescindendo dal versante "dei costi", v’è la seria possibilità che una sostanziale apertura alla compravendita di parti umane non rimanga confinata a pochi e lontani Paesi.I fautori della legalizzazione del mercato degli organi argomentano che la autodeterminazione, principio sovrano della modernità, implica anche la libertà di "donare". Ciò, tra l’altro, in nome di una nozione radicale di proprietà, secondo cui ogni individuo proprietario di un bene ha il diritto di disporne come meglio crede, attraverso l’interazione con altri. Il tutto analogamente all’ottica di mercato per cui, a seguito di scambi volontari, le persone raggiungono una situazione finale migliore rispetto a quella iniziale. Smembrando i poveri a beneficio dei ricchi, cioè, non solo questi ultimi staranno meglio, ma anche i poveri si ritroveranno in finale un po’ meno poveri.Dietro, v’è la più classica delle leggi di mercato: anche nello scambio di pezzi del corpo umano vige infatti la regola della domanda e dell’offerta, il cui disequilibrio sta crescendo oltre misura. Grazie ai progressi medici e tecnologici, e all’aumento dell’età media delle popolazioni ricche, la pratica dei trapianti si è molto diffusa, con ottimi risultati. Il dato preoccupante, però, è che l’offerta non ha subito un’adeguata impennata. Dal 2000, infatti, la domanda di organi è lievitata del 33%, a fronte di un aumento nella disponibilità del solo 3%. La domanda è cioè aumentata di ben 11 volte rispetto all’offerta. La questione è indubbiamente molto più complessa di quanto non si voglia far credere. Resta ad esempio il fatto che nelle ipotesi di trapianto da vivente, la cessione di un organo, effettuata per amore e solidarietà, si combina inevitabilmente con la menomazione di chi la subisce. Allo stesso tempo, la relazione tra medico e cedente è delicata ed estranea alle coordinate deontologiche tradizionali: il medico compie un atto che, senza giustificazione terapeutica, danneggia inequivocabilmente il cedente.Ovviamente, in pochi si pongono domande scomode, ad esempio se rientri tra i doveri degli ordinamenti incentivare scelte altruistiche. Come spesso accade invece, per risolvere il problema, si opta per la via più facile, più rapida e più "conveniente". Così, anche qui (assimilando reni ad abiti, creme o marmitte), v’è chi passa dal post hoc al propter hoc. Dato che il traffico illegale comunque esiste, non conoscendo confini né geografici né politici né culturali, dato che esso crea innumerevoli vittime negli angoli più poveri del mondo (e delle nostre città), e dato che comunque a noi, ricchi occidentali un po’ acciaccati, gli organi servono, ecco che la soluzione più ovvia finisce per essere quella di legalizzarne il traffico. Con enorme soddisfazione di tutti, e buona pace delle nostre coscienze.Ma davvero crediamo che il solo rimedio per affrontare questo spaventoso fenomeno sia la sua regolamentazione? Una delle più fiere oppositrici a tale soluzione è la battagliera Nancy Scheper-Hughes, che ricorda come a vendere siano le persone senza casa e in condizioni economiche disastrose, i rifugiati politici, gli ex soldati, i prigionieri, i soggetti con disturbi mentali (del resto, se le donne sono raramente le riceventi, spessissimo sono le donatrici).La sua voce resta, però, isolata. In pochi manifestano la preoccupazione di non esporre i deboli a nuove forme di cannibalismo. Ancora una volta, in nome della libertà e dell’autodeterminazione, parti delle nostre società mirano a reintrodurre – sia pure in forma moderna, e con la mediazione della scienza – la schiavitù tra gli esseri umani. È la solita ipocrisia del non considerare le effettive condizioni in cui il singolo viene a trovarsi. Che senso hanno autodeterminazione e libertà quando la fame e la disperazione inducono un essere umano a privarsi di una parte di sé per dare da mangiare ai propri figli? Che società è quella che sceglie di dare a tutto un prezzo di mercato?
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