martedì 11 maggio 2010
Gli effetti sull’ecosistema potrebbero essere lunghissimi. E si teme perfino che vi siano persone costrette a lasciare le proprie zone di residenza. Gli studiosi di oceanografia riuniti a Parigi: necessario più coordinamento per la difesa dei mari, impulso alle energie alternative.
COMMENTA E CONDIVIDI
Sono giunti a Parigi da ogni continente per la 5a Conferenza mondiale sugli oceani, i litorali e le isole. Ma lo sguardo dei maggiori esperti internazionali di oceanografia e biologia marina è rivolto idealmente verso la Louisiana. «Ci vorranno probabilmente diversi mesi prima di arrestare la fuga, all’ecosistema però occorreranno poi anni, forse decenni, per rimarginare la ferita», è la preoccupazione della professoressa americana Biliana Cicin-Sain, dell’Università del Delaware, autorità indiscussa del simposio: «Questa catastrofe, all’attuale ritmo, si candida a superare per gravità quella della petroliera Exxon Valdes del 1989. In Alaska, il litorale è roccioso. Nel Golfo del Messico, invece, la costa è aperta e sabbiosa. Inoltre, alcuni ecosistemi fragili come quello delle alghe o delle mangrovie subiranno danni di lungo periodo». Secondo la studiosa, la catastrofe riaccenderà anche il dibattito statunitense sulle energie rinnovabili in mare aperto: «È una strada percorribile, se ci sarà la volontà politica, ma non abbiamo ancora una buona pianificazione dello spazio marino e i progetti eolici off-shore, in particolare, incontrano difficoltà». Anch’egli americano e alla guida del World Ocean Observatory, Peter Neill è amaro, sotto la folta barba bianca da nostromo militante: «L’ironia della situazione è che ciò creerà un gruppo di rifugiati ambientali in uno dei Paesi più sviluppati al mondo. Non esistono soluzioni permanenti contro eventi simili, ma abbiamo bisogno di una struttura di gestione dei rischi e degli incidenti più dinamica e informata». Per lui, «il solo frutto positivo che si sta producendo è un’indignazione che potrebbe tradursi in un rinnovato impegno per l’oceano».C’è al contempo chi cerca di mettere l’incidente in prospettiva. «In senso stretto, non si può ancora parlare di catastrofe costiera», sostiene il ricercatore francese Christophe Rousseau, nel consiglio di direzione del Cedre, centro specializzato nell’inquinamento marino: «Vi è naturalmente una grande quantità di petrolio dissolta o in sospensione, trattata attualmente con prodotti disperdenti, ma poiché il volume d’acqua è molto grande, è probabile che si resti sotto soglie accettabili di diluizione del petrolio. Se tuttavia occorressero diverse settimane, o addirittura mesi per chiudere la falla, lo scenario muterebbe radicalmente». Un’altra voce americana allarga l’orizzonte di analisi: «Nel quadro delle prospezioni in corso soprattutto nell’Artico, ancor prima di forare, occorre una moratoria per comprendere meglio le cause di questo disastro», invoca la ricercatrice Anna Zivian, di Ocean Conservancy, ricordando che proprio in aree come l’Artico «non esistono infrastrutture per ripulire questo genere di disastri e non a caso gli effetti dell’Exxon Valdes sono avvertiti ancor oggi». C’è poi chi, in virtù del proprio ruolo istituzionale, interpreta già l’incidente in chiave di politica internazionale. Come la canadese Wendy Watson-Wright, dalla poltrona prestigiosa di segretario esecutivo della Commissione oceanografica intergovernativa (Ioc): «Questa catastrofe è un avvertimento, perché più di altre in passato evidenzia la necessità ormai irrinunciabile di gestire le attività marine in modo integrato. Finora, ogni attività, dalla pesca al turismo, è stata troppo spesso pensata separatamente dalle altre», dichiara ad Avvenire. «Dopo una simile catastrofe, si vuole sempre sapere quanto tempo occorrerà per dimenticare la ferita. Ma per saperlo, nulla potrà mai rimpiazzare una base aggiornata di dati fondata sull’osservazione. E dobbiamo renderci conto che attualmente, malgrado gli sforzi in corso, non abbiamo ancora mezzi su scala globale per una valutazione comparata degli ecosistemi oceanici».Le operazioni di pulizia in corso nel Golfo del Messico si basano anche sui dati oceanografici del Goos, il Global Ocean Observing System. L’americano Keith Alverson, che dirige il partenariato internazionale sotto l’egida dell’Onu, evidenzia i necessari progressi futuri del dispositivo: «Nel 2005, dopo lo tsunami, ci siamo chiesti se era possibile sviluppare un sistema d’osservazione per monitorare gli oceani. Siamo riusciti a convincere diverse agenzie nazionali di ricerca a scambiare i loro dati, ma i nostri sforzi non sono stati finora sufficienti per la creazione di un sistema operativo definitivo. Eppure, grazie ad esso, si potrebbero prevenire molte catastrofi e contenerne altre, in base ai dati in tempo reale sulle correnti marine».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: