mercoledì 2 dicembre 2009
L’analista John Pike: non sono sufficienti, ma la vittoria dipende da altro. L’ex ufficiale Bacevich: nessun confronto con l’Iraq, diverso il contesto.
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Trentamila uomini, fra brigate com­battenti, logistica e istruttori. Obama si ferma sotto la richiesta minima del generale Stanley McChrystal che voleva 40mi­la uomini. «Eppure – spiega ad Avvenire John Pike, esperto di difesa e fondatore di “Global Security” – la vittoria nel conflitto non è per nulla legata a quanti uomini si schierano». È invece una questione di strategia. Il problema – argomenta Pike – sta piuttosto nel far capire al governo centrale di Kabul che deve provvedere esso stesso alla sicurezza. Im­presa non facile. Perché già parlare di eserci­to nazionale – dice Pike – in un Paese diviso e sminuzzato in tribù dove tutti sono armati è complicato. Karzai poi si trova all’ultima spiag­gia. Washington chiede risultati concreti nel­la lotta alla corruzione e al narcotraffico. Serve comunque un potenziamento della po­lizia e dell’esercito nazionale. I democratici al Congresso Usa vorrebbero vedere nella nuo­va strategia fondi e uomini per l’adde­stramento dei nuovi soldati. Ma secondo il Wall Street Journal, Obama ha declinato la richiesta di Mc-Chrystal: il generale avrebbe voluto l’e­spansione a 240mila e a 160mila dell’esercito e della polizia. Qua­si il doppio quindi di quanto a disposizione at­tualmente. Obama non stanzia le risorse ri­chieste per incrementare i numeri dei solda­ti e della polizia locale. Ma è una sorta di com­promesso. La partita afghana per Obama si gioca prima di tutto al Campidoglio dove l’a­la anti-guerra del suo partito non vuole sen­tire parlare di rinforzi. «La grande sfida per O­bama – precisa Andrew Bacevich, stratega mi­litare e professore della Boston University – è vendere agli americani la guerra». Malgrado il presidente abbia indicato in 3 anni la fine dell’impegno a Kabul, secondo Bacevich que­sto andrà ben oltre gli otto. Con effetti ovvia­mente «sui costi perché significa spendere mi­liardi di dollari». Non è un caso che agli ultimi consigli di guer­ra abbia partecipato Peter Orszag, direttore dell’ufficio bilancio della Casa Bianca. Un se­gnale che prima di dare luce verde a qualsia­si revisione strategica la Casa Bianca ha guar­dato i conti. Lo stop a 30mila uomini potreb­be anche essere stato determinato da ragioni di bilancio oltreché politiche: Obama rischia infatti di vedersi approvare gli ulteriori stan­ziamenti dalla minoranza repubblicana e non dai liberal del suo schieramento che ram­mentano al presidente che nell’agosto del 2007 e nel luglio del 2008 aveva detto che si sa­rebbe limitato a mandare due “combat briga­de” (ovvero poco meno di 10mila uomini) in Afghanistan. Invece Obama in marzo ha autorizzato il dispiega­mento di 21mila uo­mini e ieri ha annun­ciato il nuovo “surge”. Concetto che non convince granché tutti gli analisti. Per Bacevich «ci sono ra­dicali differenze con quanto accadde in Iraq, i contesti sono diver­si e parlare di “surge” serve solo a chi conti­nua a sostenere la guerra». Carl Forsberg in­vece dell’Institute for study of war dice che «in Iraq il “surge” fu un incremento di truppe per consentire una svolta tattica: i soldati po­tevano proteggere la popolazione con tatti­che di controguerriglia. Ed è lo stesso cam­biamento di paradigma che la Nato vorrebbe implementare in Afghanistan con il “surge” di Obama». Il nodo tuttavia è che la gran parte dei 30mila soldati sarà dispiegata nel Sud e nel Nord est e ciò rischia di lasciare scoperte altre zone già a rischio implosione come l’E­st, e l’Ovest oltre che il Nord. «Anche per que­sto conclude – Forsberg – più che mai serve il supporto del Pakistan. Che combatte gli e­stremisti nella Provincia Nordoccidentale. Ma non nel Balucistan».
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