martedì 10 novembre 2020
Meno di cinque euro al giorno di media, avvolti dai miasmi sotto ogni condizione atmosferica. Un lavoro rischioso, quello di chi cerca di sopravvivere selezionando tra i rifiuti delle discariche
Nelle discariche indiane vengono scaricate tonnellate di rifiuti infettanti

Nelle discariche indiane vengono scaricate tonnellate di rifiuti infettanti - Ansa

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Meno di cinque euro al giorno di media, avvolti dai miasmi sotto ogni condizione atmosferica. Un lavoro rischioso, quello di chi cerca di sopravvivere selezionando tra i rifiuti delle discariche. Abitualmente sottoposto al rischio di smottamenti e infezioni, ma da mesi a diretto contatto con le immense quantità di materiali di scarto di strutture sanitarie connessi alla pandemia: mascherine, guanti, tute protettive, siringhe e molto altro gettato a migliaia di tonnellate tra i rifiuti comuni. Facile capire come scavare a mani nude esponga – soprattutto i bambini che spesso la necessità spinge a cooperare con gli adulti in questa attività – a contrarre il virus che ha finora contagiato quasi 50 milioni di individui e nel mondo è stata causa prima o concausa di 1,25 milioni di morti.

A New Delhi, capitale e specchio di un Paese, l’India, che ha forse quattro milioni di abitanti che vivono selezionando i rifiuti, si stima che oggi si producano 700 tonnellate di soli scarti sanitari che però, come conferma l’esperto Dinesh Raj Bandela, del Centro per la Scienza e l’ambiente, «non vengono necessariamente trattati come prodotti pericolosi sul piano biomedico e quindi mettono a rischio chi si trova a contatto con essi». E il livello dei contagi è altissimo, osservano molti operatori delle Ong anche se le vittime non saranno mai censite. Le limitate iniziative del governo locale per fornire ai lavoratori delle discariche protezioni anti-Covid è servito soltanto a evidenziare una situazione altrove drammatica. Non è un caso che i principali focolai di contagio e le vittime conseguenti si registrino negli slum sovraffollati e anti-igienici che spesso hanno nelle loro “montagne fumanti” una fonte di sostentamento essenziale per una parte almeno della popolazione. D’altra parte, l’alternativa è la fame, come dimostra l’incremento nel numero dei “dannati” delle discariche , non solo in India ma in tutta l’Asia in via di sviluppo.

Ancor più dei minori, ai quali oggi le aule sono precluse dalla loro chiusura, dall’impossibilità a raggiungerle o dalle necessità familiari per l’impossibilità di molti adulti di garantirsi un reddito. Ancora più aleatorio per la chiusura di tanti centri di raccolta di materiale da riciclare dove potere vendere quanto recuperato con ore di intenso e rischioso impegno. Sono almeno 6.000 in tutta l’Indonesia questi centri, alla fine di una catena di gestione dei rifiuti che vede in molti casi una cooperazione tra i sistemi di raccolta pubblici e chi si occupa della selezione manuale e del reinserimento di materiali nel ciclo produttivo. Si calcola che nel mondo siano 15 milioni (in media, l’un per cento della popolazione urbana di Paesi in via di sviluppo, fino al due per cento in Asia) a vivere del recupero dalle discariche, con un giro d’affari – si direbbe in altri contesti – di svariati miliardi di dollari. Ultima “frontiera” è la selezione di elementi spesso altamente tossici dagli scarti dell’elettronica di consumo che il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente valuta in 40 milioni di tonnellate all’anno.

Un fenomeno non relegato solo ai Paesi più poveri, in quanto anche quelli più arrembanti faticano a garantire le ingenti risorse necessarie al recupero, smaltimento e riciclo. Una situazione all’incrocio di più necessità che dall’India alla Cina, dal Bangladesh alle Filippine ha in parte modificato la visione di un’attività un tempo sinonimo di povertà e degrado senza speranza, ora accolta e a volte incentivata come mezzo per affrontare l’emergenza ambientale e per fornire possibilità di reddito a gruppi di popolazione altrimenti privi di possibilità. Lontano dall’immaginario tradizionale, le attività di recupero, per quanto disagiate e che – ancor più nei periodi di crisi come quello attuale – mettono a repentaglio istruzione, salute e sicurezza di migliaia di donne e bambini, sono in modo crescente gestite in forma associativa e a volte in cooperazione con i servizi pubblici. È così che “il popolo delle discariche”, una fetta consistente dell’economia informale, va passando dall’emarginazione al ruolo di partner nello sviluppo sostenibile, senza nulla o poco togliere a una esistenza basata perlopiù sulla sussistenza e a fronte di conseguenze pesanti e a volte letali. In questo tempo di pandemia, tuttavia, tutto questo sembra non avere più un senso e le vecchie logiche di emarginazione scritte nella tradizione o incentivate da egoismo e profitto sembrano riavere il sopravvento. 2. Continua

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