giovedì 16 novembre 2023
Due sono le domande pressanti di queste ore, le cui risposte si rifletteranno a lungo sulla situazione mediorientale...
Durata della guerra e il "dopo": Netanyahu chiamato a scelte tempestive
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Due sono le domande pressanti di queste ore, le cui risposte si rifletteranno a lungo sulla situazione mediorientale. Per quanto proseguirà l’intervento militare israeliano che sta esigendo un tributo di vite civili sempre più alto e complessivamente inaccettabile dal punto di vista umanitario? Qual è il progetto per il dopo-Hamas a Gaza? A entrambe le questioni il governo di Tel Aviv non sembra avere una soluzione chiara e definita, per cui si può prevedere che, purtroppo, anche il futuro prossimo della regione, Stato ebraico compreso, non sarà chiaro e definito.

Sono oltre 11mila le vittime nella Striscia, 4mila sono minori, moltissime le donne. Se tra la popolazione comincia a crescere l’insofferenza per il movimento fondamentalista che ha provocato l’esplosione di violenza e ha probabilmente usato molte strutture civili per nascondere i propri miliziani favorendo i massacri, è certo che il risentimento antiisraeliano tornerà a livelli altissimi in tutti i territori palestinesi e in molti Paesi arabi (ma anche in Occidente, come si vede dalle manifestazioni di piazza e pure dalle petizioni di accademici fatte proprie addirittura da giovani funzionari dell’Amministrazione americana). Ci sarà una breve tregua in cambio della liberazione di ostaggi? Potrebbe essere l’occasione per abbassare la tensione.

A seguire, tuttavia, dovrebbe ridursi la morsa bellica su Gaza, lasciando spazio solo ad azioni mirate su esponenti terroristici. Uno scenario poco probabile. Vedremo invece altri bombardamenti e ingrossarsi le file dei profughi rimasti senza mezzi di sostentamento. Più passa il tempo, più si fa intricato lo scenario per un ritorno alla “normalità”.

Chi si assumerà l’onere di controllare politicamente la Striscia? L’occupazione da parte delle forze di Tel Aviv potrebbe diventare obbligata nell’eventualità che né l’Anp né una coalizione araba o internazionale sotto l’egida Onu riesca a concretizzarsi. Un esito che allontanerebbe le prospettive di pace, soprattutto perché potrebbe alimentare la tentazione di Hezbollah da Nord di tenere sotto pressione Israele, il quale avrebbe un forte impegno di uomini e mezzi nel Sud. A questo punto della guerra, dal punto di vista strategico, sembra che ogni giorno in più di combattimenti non ridarà gli ostaggi ai loro cari né permetterà la cattura degli ultimi leader di Hamas rimasti a Gaza.

D’altra parte, una via di uscita diplomatica alla crisi è del tutto fuori discussione. Di fronte all’incapacità di Stati Uniti ed Europa di esercitare qualche influenza sul premier Netanyahu per orientarlo alla moderazione, la previsione più facile va nella direzione di un conflitto che si protrarrà ancora per settimane. Il risultato sarà una saldatura del mondo arabo-islamico che, Iran e alleati a parte, non è più disponibile a pagare alti prezzi per la Palestina ma di fronte a stragi continue - ai telespettatori di al-Jazeera non sono risparmiati dettagli 24 ore su 24 delle distruzioni, del dolore e della disperazione non possono ignorare la reazione dei propri cittadini. L’isolamento di Israele tenderà a crescere anche nelle nostre opinioni pubbliche (gesti come quello di ieri - fare saltare in aria l’edificio del Parlamento della Striscia - non aiutano). Soltanto un cambio di governo con l’uscita di scena di Netanyahu contribuirà a cambiare l’orientamento verso lo Stato ebraico.

Ma nella partita interna l’attuale premier sta puntando proprio sulla crescente ostilità per giustificare la linea dura, che a sua volta alimenta le minacce alla sicurezza del Paese e quindi viene ulteriormente giustificata e incrementata. Tutto questo è responsabilità primaria di Hamas, che con il pogrom a sangue freddo ha innescato una spirale incandescente ora difficile da raffreddare. Una democrazia come Israele ha però il complesso compito di trovare una via di uscita che dia alla nazione solide garanzie e nello stesso tempo possa fare ripartire un percorso, necessariamente ormai lungo e accidentato, di convivenza regionale. Dare ascolto ai suoi alleati sinceri e permettere la loro partecipazione a questo processo sarebbe già un passo per allontanare i pericoli di una guerra allargata. Il tempo è poco per dare risposte che valgono come un’ipoteca sul futuro che si annuncia nero, ma potrebbe essere meno cupo se qualche strategia ragionevole sarà messa tempestivamente in campo.

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