martedì 2 novembre 2021
A Thangtlang, cittadina dello Stato Chin, sono state incendiate almeno 160 case e due chiese. La Rete interreligiosa della Rivoluzione di Primavera ai generali: «Fermate la disumanità dell'esercito»
Il fumo degli incendi su leva dal centro di Thangtlang, cittadina dello Stato Chin presa di mira dall'esercito golpista

Il fumo degli incendi su leva dal centro di Thangtlang, cittadina dello Stato Chin presa di mira dall'esercito golpista - Collaboratori

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«Ci saranno altre Thangtlang, se i civili continueranno a combattere contro i militari». Così ha scritto su Facebook, pochi giorni fa, il portavoce del Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo (Usdp), cui fanno capo i golpisti che dal primo febbraio scorso hanno preso il potere con la violenza in Myanmar. Benché il post sia stato successivamente rimosso, la minaccia dà l’idea del pesantissimo clima che si respira nel Paese, dopo 9 mesi di durissima repressione da parte dell’esercito, il famigerato Tatmadaw.

Thangtlang è una cittadina dello Stato Chin, nell’ovest del Paese, dove, a causa dei bombardamenti aerei e degli attacchi dell’artiglieria, pochi giorni fa sono state incendiate almeno 160 case e due chiese. Anche un ufficio locale di Save the Children è stato bruciato.

Molti dei residenti di Thantlang (in precedenza circa 10mila) sono fuggiti dalle loro case e ora non hanno più case in cui tornare. La maggior parte degli abitanti si è rifugiata nei villaggi al confine con l’India, altri hanno attraversato il confine. Quest’ultimo episodio di una lunga catena di violenze contro la popolazione civile è stato citato anche dall’ambasciatore U Kyaw Moe Tun nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu il 29 ottobre, in cui ha sottolineato i continui crimini contro l’umanità compiuti dal regime birmano. Dal 1 febbraio ad oggi sono state arrestate più di 9mila persone; oltre 1.200 le vittime, di cui almeno il 10% sono state torturate a morte.

Prende spunto proprio dall’attacco alla cittadina di Thantlang una dichiarazione molto dura della Rete interreligiosa della Rivoluzione di Primavera (Spring Revolution Interfaith Network), diffusa l’altro ieri. In essa i firmatari condannano senza mezzi termini l’accaduto (nel loro testo si parla di 300 case e chiese incendiate), esprimono la loro più profonda solidarietà nei confronti della popolazione così duramente provata e chiedono alla comunità internazionale e specificamente al Consiglio di sicurezza dell’Onu di «prendere immediate e concrete iniziative per fermare la disumana attività dell’esercito fascista del Myanmar che ha ripetutamente commesso crimini contro l’umanità».

I firmatari del documento sono un drappello di personalità che rappresentano le varie religioni diffuse nel Paese, a cominciare dal buddismo (professato da oltre l’80 della popolazione), passando per l’islam e il cristianesimo. Portavoce dei cattolici è un prete, don Dominic Than Zin. I membri del gruppo si riuniscono dall’8 agosto scorso – anniversario della rivolta dell’8.8.88 – una volta alla settimana in una zona vicina al confine con la Thailandia: loro obiettivo è mobilitarsi per la fine della dittatura militare, lavorare alla costruzione di una Repubblica federale e realizzare «una nuova società capace di garantire il diritto alla libertà religiosa e alla sua pratica, e dove siano eliminate le discriminazioni contro le persone di diverse etnie».

La figura più in vista del gruppo è Ashin Issariya, un monaco buddista noto col soprannome di King Zero, già leader della «Rivoluzione zafferano» affogata nel sangue nel 2007. Costretto a lungo all’esilio in Thailandia, è rientrato pochi anni fa in Myanmar, con un obiettivo: combattere il nazionalismo buddhista militante.

Lo Stato di Chin, regione a prevalenza cristiana

Lo Stato Chin, abitato dall’etnia omonima di religione cristiana (85%) nell’area occidentale del Myanmar al confine con Bangladesh, India e con il Rakhine, e teatro delle brutalità anche contro la popolazione Rohingya costretta a fuggire in maggioranza in Bangladesh, è quello dove si concentra ora il conflitto tra il regime e le forze locali, sia l’Esercito nazionale Chin, braccio armato del Fronte nazionale Chin, sia le Forze di difesa popolare nate per difendere la popolazione civile. I Chin fanno parte della coalizione di etnie che ha deciso di contrastare con le armi la pretesa di controllo dei militari sul Paese riprendendo l’ideale del Chinland, di un territorio pienamente autonomo nel contesto del Myanmar. Una richiesta elusa dal regime, la cui azione ha ora aspetti persecutori verso i cristiani, ampiamente maggioritari. (Stefano Vecchia)

La resistenza

L’incremento delle azioni militari del regime, con un numero crescente di vittime e profughi, sta alimentando una recrudescenza del conflitto in Myanmar. Dopo il precedente annuncio dell’intenzione di dare vita a una propria forza armate, il governo di unità nazionale che nella clandestinità coordina le azioni di disobbedienza civile e boicottaggio verso il regime, fornisce aiuti alle popolazioni colpite da pandemia e violenze e cerca un riconoscimento internazionale come governo legittimo del Myanmar, ha annunciato la nascita di una struttura di comando per coordinare tutte le forze attive nel contrasto al regime.

Il Comando centrale e comitato di coordinamento, ha segnalato il ministero della Difesa del governo-ombra, comprende leader del governo di unità nazionale e delle Organizzazioni etniche armate che si coordineranno con le Forze di difesa popolare, centinaia di gruppi che in tutto il Paese hanno avviato una guerriglia nelle aree rurali e azioni contro obiettivi mirati nelle città. (S.V.)

I numeri​

7.000 gli arrestati dal colpo di stato di febbraio: molti i leader politici, inclusa la premio Nobel Aung San Suu Kyi

1.200 morti nelle repressioni (dati stimati, vista la censura). Oltre 300mila, invece, gli sfollati interni




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