venerdì 24 novembre 2023
Nonostante la Brexit è boom di ingressi, che superano di gran lunga le partenze. Ma a far schizzare verso l’alto il numero degli arrivi sono cittadini extraeuropei, con indiani e nigeriani in testa
Il premier inglese Rishi Sunak

Il premier inglese Rishi Sunak - Reuters

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Peggio dell’era pre-Brexit è stato il tasso migratorio netto registrato l’anno scorso nel Regno Unito. L’ufficio statistico nazionale (Ons) ha stimato che nel 2022 la differenza tra ingressi regolari e partenze è stato di 745mila persone. Più del doppio dei livelli toccati negli anni che hanno preceduto il divorzio dall’Unione Europea di tre anni fa.

Un record che piomba come un imponente macigno sull’esecutivo conservatore che da anni professa l’urgenza di contenere, se non ridurre, gli arrivi. La rilevazione è stata un autentico choc perché ha superato persino le previsioni più pessimistiche che davano il saldo migratorio a 606mila unità. A far schizzare in alto il tasso sono stati i cittadini approdati Oltremanica dai Paesi extraeuropei. Un esercito di 968mila persone. L’80 per cento del totale dei nuovi arrivi (1,2 milioni). La Brexit, certo, ha funzionato (come nelle intenzioni dei suoi ideatori): il flusso migratorio dal Continente all’isola britannica è stato scoraggiato fino ad abbatterlo. Ma non ha risolto il problema, il più caro ai conservatori, degli stranieri che affollano il Paese.

Chi sono? Le statistiche dell’Ons incrociate con i dati del ministero degli Interni spiegano che si tratta in prevalenza di lavoratori e non di richiedenti asilo. Indiani e nigeriani, in particolare, a cui è stato concesso un permesso per prestare servizio nei settori più a corto di manodopera. Per esempio nella sanità pubblica.

Un portavoce del premier Rishi Sunak ha commentato le rilevazioni sottolineando che il governo valuterà l’appropriatezza di interventi tesi ribilanciare il flusso migratorio perché «si adatti meglio alle esigenze del pubblico britannico». L’esecutivo, benché determinato a rilanciare il fattore immigrazione per rafforzare il consenso elettorale in vista delle elezioni dell’anno prossimo, è diviso su come muoversi. L’ipotesi di ridurre i visti di lavoro è difficilmente conciliabile con la cronica mancanza di personale. Dall’ala più oltranzista dei Tory, capeggiata dall’ex ministro degli Interni, Suella Braverman, arrivano proposte controverse. Come impedire agli stranieri ingaggiati dal sistema sanitario di trasferirsi con la famiglia al seguito. O innalzare a 45mila sterline annue il valore del contratto di lavoro di cui i neolaureati devono essere in possesso per fare carriera a Londra. Sullo sfondo del dibattito interno, non va dimenticato, si tengono le negoziazioni per ritoccare l’intesa con il Ruanda bocciata dalla Corte Suprema.

Persino un giornale conservatore come il Times comincia a chiedersi se, fallito il «test di virilità politica» associato alle deportazioni forzate, non sia il caso di rinunciare invece all’«ossessione patologica» dell’immigrazione per evitare altre irrimediabili batoste. Richiamo, per il momento, inascoltato. «La pressione sugli alloggi popolari, sul sistema sanitario nazionale, sulle scuole, sui salari e sulla coesione comunitaria è insostenibile – ha tuonato Braverman – adesso basta». Per i conservatori risolvere il problema, mantenere la promessa diventata nel 2019 parte del manifesto del partito, è una questione «di vita o di morte».

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