domenica 27 aprile 2014
Fosse comuni. Un milione i resti seppelliti, senza riti né lapidi. A scavare sono i carcerati condannati ai lavori forzati. Per questo il camposanto è blindato. Il dolore dei parenti: «Stop ai permessi per visitare i nostri cari» Elena Molinari
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I corpi arrivano in traghetto. A decine, ogni settimana. La media è di quattro al giorno, hanno calcolato i detenuti che li seppelliscono. Questi ultimi sanno prevedere con esattezza quando met­tere mano alle pale e scavare una nuova buca. La lo­ro tecnica è precisa: ammucchiano le scatole di compensato con i cadaveri in pile di tre e in file di sei, in modo che una fossa comune da 21 metri per sette contenga esattamente 150 adulti. Di neonati, accatastati diversamente, ce ne stanno anche mille, sotto un tubo di plastica che indica che quel posto è già pieno. Si pensa che in questo mo­do sull’isola Hart, a una ventina di chilometri in li­nea d’aria da Times Square a New York, siano già sta­ti sepolti i resti di un milione di persone. Ma l’Am­ministrazione della Grande Mela non può fornire dati esatti sul più grande cimitero degli Stati Uniti. Non ci sono lapidi, e solo dal 2009 il Comune man­tiene un registro di nomi (o numeri, quando non ci sono nomi) e delle posizioni delle tombe. La stessa esistenza del camposanto è circondata dalla segre­tezza.  La maggior parte dei newyorkesi non ne ha mai sentito parlare. Per poter mettere piede sull’i­sola bisogna chiedere un permesso speciale e pren­dere un appuntamento per il passaggio in traghet­to, lo stesso sul quale viaggiano i defunti, ma non allo stesso tempo. È proibito fare foto o assistere a una sepoltura. L’unico punto d’approdo dell’isola è circondato da filo spinato e da cartelli che intima­no minacciosamente di allontanarsi. Anche le famiglie dei deceduti – relativamente po­che, perché di solito i senza tetto, i nati morti, i di­sperati mai identificati che trovano il loro ultimo ri­poso terreno su Hart Island non hanno nessuno – devono dimostrare un legame di parentela e a­spettare mesi o anni per poter dire addio ai loro ca­ri. Il Comune di New York motiva le limitazioni con le condizioni poco igieniche del posto e la presen­za di criminali che, ogni giorno, dal martedì al ve­nerdì, fanno due ore di viaggio dal carcere di Rikers Island per scontare fra i morti la loro pena ai lavo­ri forzati. Ma un numero crescente di associazioni chiede che l’isola venga aperta ai parenti dei defunti e che le sepolture siano accompagnate da un pic­colo rituale. Elaine Joseph ha dovuto aspettare trent’anni per fare un funerale a sua figlia. La piccola Tomika e­ra nata prematura nel 1978 in un ospedale di New York. La madre era a casa quando complicazioni cardiache hanno reso necessaria un’operazione urgente sulla neonata nel bel mezzo di una bufe­ra di neve che ha paralizzato la città. Quando, ol­tre 24 ore dopo, la donna è freneticamente riusci­ta a raggiungere l’ospedale, di sua figlia non c’era traccia. Era morta, le è stato detto, ed era stata por­tata via per la sepoltura. Solo nel 2012, dopo infi­nite domande e denunce, Elaine ha potuto vede­re, da lontano, il luogo approssimativo della tom­ba di Tomika a Hart Island, coperta di boscaglia e in mezzo a rovine che raccontano la triste storia dell’isola. Prigione e cimitero militare durante la Guerra Civile del 1860, poi manicomio, quindi o­spedale per tubercolotici e infine riformatorio ma­schile. Elaine ha allora fondato l’Hart Island Project, un gruppo che ha fatto scoprire l’esistenza dell’isola. Lei e decine di altre persone – e molte sono madri che non erano in grado di dare una sepoltura ai loro in­fanti nati morti e li hanno affidati all’ospedale, sen­za pensare che avrebbero perso del tutto i cadave­ri – chiedono la stessa cosa: «Una piccola lapide, e la possibilità di venire quando vogliamo a portare un fiore».

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