martedì 19 dicembre 2023
Dopo il 7 ottobre, i permessi sono stati negati. Ma alcuni gestori delle fabbriche negli insediamenti hanno fatto pressione e ottenuto il rientro dei loro operai
Lavoratori palestinesi in un insediamento in Cisgiordania

Lavoratori palestinesi in un insediamento in Cisgiordania - Ansa

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«Hamas ha distrutto tutto. Dopo il 7 ottobre in Cisgiordania non c’è più turismo, non c’è più lavoro, non c’è più speranza. Hanno distrutto le vite di tutti: degli israeliani, ma anche di noi palestinesi». Wael è un giovane muratore di Betlemme che ha lavorato per anni nei cantieri di Tel Aviv. E che ora non ha più nulla. Tra le numerose conseguenze del Sabato Nero, infatti, c’è anche quella della restrizione, per ragioni di sicurezza, dei permessi di soggiorno ai lavoratori palestinesi della Cisgiordania che facevano regolarmente avanti e indietro come pendolari in Israele. Ogni giorno entravano oltre 150.000 operai, impiegati soprattutto nel settore dell’edilizia e dell’agricoltura, guadagnando i salari più alti di tutta la Cisgiordania. A distanza di oltre due mesi, questa situazione di stallo sta creando enormi problemi, sia all’economia israeliana, a cui manca una sostanziale forza lavoro; sia all’economia palestinese, il cui 25% del Pil dipendeva da questi ingressi in Israele; sia, sul lungo periodo, alla stessa sicurezza del Paese. Come hanno spiegato fonti del ministero della Difesa: «Per Hamas, 150.000 disoccupati sono una manna scesa dal cielo: quanto tempo potranno continuare senza fornire cibo alle loro famiglie? Quanto tempo ci metteranno a diventare manovalanza per il gruppo terrorista?».

Per cercare di tornare quanto prima a una situazione sostenibile, la Difesa ha proposto che padri di famiglia, di età superiore ai 38 anni, possano tornare in Israele, utilizzando autobus designati appositamente al trasporto da e verso il posto di lavoro, senza consentire loro di muoversi liberamente all'interno del Paese. Domenica, però, il premier Benjamin Netanyahu ha rinviato il voto su questi ingressi, allineandosi alla maggior parte dei membri del gabinetto che hanno preferito opporvisi, nonostante l’establishment della Difesa – con tutte le dovute restrizioni e un’attentissima supervisione – avesse fortemente sostenuto questa riapertura.

In ogni caso, nelle ultime settimane qualcosa sembra essersi smosso. Paradossalmente, solo all’interno delle colonie, dove alcuni amministratori delle fabbriche locali hanno contattato alti funzionari dell’esercito, chiedendo che ai loro operai palestinesi fosse permesso di tornare, a causa della forte carenza di manodopera. Le Forze di difesa israeliano hanno approvato, per ora, i primi 10.000 permessi, consentendo solo il lavoro nel perimetro degli insediamenti. A premere per questi ingressi sarebbero stati proprio i leader dei coloni Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, scavalcando la decisione del gabinetto di sicurezza che, immediatamente dopo lo scoppio della guerra, aveva bloccato tutti i permessi, ad eccezione di 5.000 operai che svolgono mansioni considerate “vitali”: negli ospedali, in aziendae alimentari e in fabbriche dalle attività cruciali per l’esercito. «Siamo tornati indietro di trent’anni, a prima degli Accordi di Oslo – conclude, amareggiato, Wael –. iente tornerà più come prima».

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