mercoledì 25 marzo 2009
Ricerche e studi compiuti da vent’anni testimoniano quanto risulti inefficace puntare sul preservativo per ridurre la diffusione
E quanto sia importante puntare (oltre che sui farmaci retrovirali) sulla modificazione dei comportamenti sessuali a rischio.
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Il rischio di contrarre il virus Hiv usando i preservativi durante i rapporti sessuali è nell’ordine del 15%. Questa conclusione è con­tenuta in uno studio pubblicato dalla nota rivista scientifica bri­tannica The Lancet (che ha così duramente criticato il Papa sopo il suo viaggio in Africa), nel 2000. È una delle conferme scientifiche di quanto affermato da papa Bene­detto XVI la settimana scorsa in A­frica, ovvero che l’Aids non si scon­figge distribuendo i preservativi, ma attraverso un’educazione alla dignità umana. A sostenere la cor­rettezza scientifica della posizione del Papa non è dunque soltanto Edward Green, il celebre studioso di Harvard le cui posizioni sono state riportate su Avvenire del 21 marzo. Al contrario, sfogliando le riviste scientifiche e mediche di questi vent’anni di lotta all’Aids, troviamo numerose conferme alla fallibilità dei profilattici. L’effetto «cinture di sicurezza». Ri­prendendo il citato articolo del Lancet ( John Richens, John Imrie, Andrew Copas, Condoms and seat belts: the parallels and the lessons) si fa un interessante parallelo con le cinture di sicurezza per gli inci­denti automobilistici, che (anche loro) non hanno portato i benefici sperati. In pratica, sostengono gli autori dello studio, il senso di sicu­rezza moltiplica i comportamenti a rischio. È il fenomeno noto come «teoria della compensazione del ri­schio ». Nel caso dei preservativi la responsabilità è di chi sostiene sia­no «la» soluzione definitiva del pro­blema, inducendo perciò un senso di falsa sicurezza che moltiplica i rapporti promiscui, principale cau­sa della diffusione della malattia. Ciò è dimostrato dal fatto – sostie­ne lo studio – che in Africa i Paesi dove il preservativo è più diffuso (Zimbabwe, Botswana, Sudafrica e Kenya) sono anche quelli con i tas­si di sieropositività più alti. «L’effi­cacia del preservativo – concludo­no i ricercatori – è legata soltanto al reale cambiamento dei compor­tamenti a rischio». Preservativo troppo rischioso. Sui tassi di inefficacia del profilattico concordano molti studi scientifici. Secondo una ricerca condotta da S. Weller e K. Davis e pubblicata su Family Planning Perspective (una rivista scientifica dell’Alan Gutt­macher Institute, emanazione del­l’organizzazione abortista "International Planned Parenthood Fede­ration"), l’efficacia del preservativo nel prevenire la trasmissione del­l’Hiv è stimabile intorno all’ 87%, ma può variare dal 60 al 96%. Dati confermati anche dal­lo studio di J. Trussell e K. Yost e presentati (senza che si levassero voci scandalizzate) al­la Conferenza Onu di Rio de Janeiro nel 2005. Ancora su Family Planning Perspective viene citato uno studio di Marga­ret Fishel secondo cui in coppie sposate con un partner sieroposi­tivo, l’uso del preservativo come protezione ha prodotto l’infezione dell’altro partner nel giro di un an­no e mezzo nel 17% dei casi. Perché i preservativi non funzio­nano. Uno studio presentato nel 1990 sul British Journal of Family Planning mostra che in un test ef­fettuato in Inghilterra nel 52% dei casi, gli utilizzatori del profilattico ne hanno sperimentato la rottura o lo scivolamento. C. M. Roland, scienziato esperto del lattice e di­rettore di Rubber Chemistry Land Technology, nel 1992 spiegava in u­na lettera pubblicata dal Washing­ton Times che già nella prevenzio­ne delle gravidanze si registra un 12% di fallibilità malgrado i pori del lattice (5 micron) siano 10 volte più piccoli dello sperma. Una fallibilità che aumenta esponenzialmente nel caso del virus dell’Aids perché questo ha una dimensione di 0,1 micron, ovvero può facilmente tro­vare un passaggio nel profilattico anche ipotizzando un suo uso ot­timale. Questi rischi sono ancora più elevati in Africa perché il caldo e le modalità di conservazione dei profilattici contribuiscono note­volmente a deteriorare il lattice. Il metodo ABC. Sono ancora gli studi scientifici a dimostrare che l’arma davvero efficace contro il vi­rus dell’Aids – oltre ovviamente ai farmaci antiretrovirali, di cui an­che il Papa ha ricordato l’impor­tanza – è l’educazione alla integra­lità dell’uomo, che in termini di strategie è stata tradotta nell’ABC: (A, astinenza), fedeltà a un unico partner ( B, be faithful)), C ( con­dom, preservativo), dove l’accen­to è messo soprattutto sulle prime due strade. È il caso dell’Uganda, l’unico Paese dove si sia riscontra­ta una diminuzione nel tasso di in­cidenza dell’epidemia, a dimostra­re la bontà di questo approccio, scelto dal presidente Museveni già all’inizio degli anni ’ 90. Secondo un rapporto di UsAid (l’agenzia go­vernativa statunitense che si occu­pa di aiuti allo sviluppo) in 15 an­ni c’è stata una riduzione nel tasso di infezioni del 75% nel gruppo di età tra i 15 e i 19 anni, del 60% tra i 20 e i 24 anni, e del 54% nel suo complesso. E questo perché è sta­to ridotto del 65% il sesso con part­ner casuali. Questa conclusione viene condivi­sa dalla rivista Science con un arti­colo pubblicato già nel 2004 in cui si esclude che l’uso dei profilattici abbia avuto un ruolo significativo nella positiva evoluzione. Dato ul­teriormente confermato dalla lun­ga ricerca condotta sul campo, in Africa, da Helen Epstein, che ha raccolto i dati in un libro pubbli­cato nel 2007 ( La cura invisibile: l’Africa, l’Occidente e la lotta contro l’Aids), in cui attacca l’Occidente perché si ostina a ignorare che l’u­nica strategia che funziona contro l’Aids è, appunto, la «cura invisibi­le» , ovvero l’educazione, il cam­biamento dei comportamenti ses­suali.
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