
Un momento della diretta tv interrotta bruscamente dall'esplosione avvenuta a Teheran - Ansa
Ufficialmente Israele ha due obiettivi nei confronti dell’Iran: eliminare la minaccia dell’atomica e quella dei missili. Ed è – ha detto Benjamin Netanyahu ai militari della base di Tel Nof – «sulla strada per raggiungerli entrambi». C’è, però, un terzo proposito diventato sempre più palese nelle ultime 72 ore: far crollare la Repubblica islamica. Fin da venerdì, al principio dell’operazione “Rising lion”, dopo aver negato categoricamente, il premier aveva rivolto un forte appello alla popolazione del Paese rivale a «lottare contro un regime che vi ha oppresso per quasi cinquant’anni». Il giorno successivo, erano cominciate a filtrare indiscrezioni sul fatto che non ci fossero bersagli “off limits”. Compresa la Guida suprema, Ali Khamenei. Un possibile veto di Donald Trump sulla sua eliminazione, è stato addirittura negato esplicitamente domenica da Netanyahu. Ieri, un’intervista all’emittente statunitense Abc ha anzi affermato: l’uccisione di Khamenei «non aggraverebbe il conflitto ma ne determinerà la fine». E ha aggiunto: «Faremo quel che deve essere fatto. Non entrerò nei dettagli - ha aggiunto - ma abbiamo già colpito i loro principali scienziati nucleari, praticamente il team nucleare di Hitler». Qualche ora dopo, nel corso di un briefing, ha cercato di sfumare: «È impossibile prevedere la caduta del regime, ma potrebbe essere il risultato della nostra potente azione. Stiamo cambiando il volto del Medio Oriente e questo potrebbe portare grandi mutamenti all’interno dell’Iran». Dichiarazione che – proprio il «non confermiamo né smentiamo» del ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar – suona come una conferma della determinazione a defenestrare gli ayatollah dal potere. A far cadere il velo dell’ambiguità è stata la conquista dei cieli di Teheran. Ora «possiamo centrare il dittatore ovunque», ha sottolineato Katz. Il premier stesso ha parlato di un «cambio della natura della campagna». Pochi dubitano che gli israeliani abbiano effettivamente raggiunto il controllo aereo: finora hanno sganciato bombe guidate a gittata relativamente breve invece di missili da crociera . Le difese di Teheran – prima di S300 di progettazione russa, poi i radar e lanciatori – erano già state gravemente danneggiate negli attacchi di ottobre e aprile 2024. I pochi caccia rimasti, oltretutto datati, dimostrano di non riuscire a contrastare il nemico. Più che le parole, a parlare sono i fatti. L’aviazione di Tel Aviv ha martellato ripetutamente la capitale, in particolare il nord e l’est, portando il bilancio delle vittime – secondo il governo iraniano – a 224, «per il 90 per cento civili». Le bombe sono cadute sui quartieri di Lavizan – in cui Khamenei sarebbe asserragliato in un bunker con i familiari –, Farahzad, Andarzgou, Asatide-Sarv, il grattacielo Jahan Koudak e l’intero distretto 3 dopo che i suoi 300mila abitanti avevano ricevuto un ordine di evacuazione. Come anticipato dal ministro della Difesa, Israel Kantz, l’edificio della tv di Stato Irib è stato colpito pesantemente. E proprio nel mezzo del telegiornale. L’esplosione ha costretto la giornalista Sahar Emani a una fuga precipitosa dallo studio, il notiziario è stato oscurato e le trasmissioni interrotte anche se solo per meno di un’ora. Secondo Israele, il palazzo era utilizzato per operazioni militari sotto copertura. Affermazione negata da Teheran. «Un’azione spregevole, un crimine di guerra», ha tuonato ministro degli Esteri, Abbas Araghchi. E ha minacciato di colpire Tel Aviv con «l’attacco più violento della storia».
I missili lanciati in serata sul nord del Paese, in realtà sono stati intercettati prima di cadere al suolo grazie al nuovo scudo, appena entrato in funzione. La notte precedente, però, vari ordigni erano riusciti a oltrepassare le difese aeree uccidendo otto persone a Petah Tikva, Bnei Brak e Haifa. Le vittime israeliane degli ultimi quattro giorni sono salite così a 24, a cui si aggiungono oltre 630 feriti, di cui 13 in gravi condizioni. L’aggressività retorica degli ayatollah non riesce, però, a nascondere la fragilità del regime. L’Iran international, emittente dell’opposizione con sede a Londra, sostiene cje il vice-capo di gabinetto di Khamenei sia in trattative con la Russia per ottenere asilo in caso «la situazione si deteriori». Fonti ben informate, inoltre, sostengono che il regime avrebbe chiesto a Qatar, Arabia Saudita e Oman di mediare con gli Usa affinché convincano Israele al cessate il fuoco in cambio di «flessibilità» nel negoziato sul nucleare, il cui nuovo round, previsto domenica, è stato annullato da Teheran dopo l’offensiva di Tel Aviv. I leader del Golfo temono un’escalation regionale. E, dietro le quinte, sono impegnati in un triplice dialogo per evitarlo. Mentre Muscat e Doha tengono i canali aperti con Teheran, Riad utilizza i propri buoni uffici con Washington, affinché quest’ultima prema su Israele. I sauditi sono un alleato storico della Casa Bianca e il principale rivale strategico dell’Iran in Medio Oriente. Gli eventi dopo il 7 ottobre, però, hanno riavvicinato il Regno wahabita alla potenza sciita, dandogli un ruolo cruciale nell’attuale crisi.
I margini appaiono, però, stretti. Netanyahu si dice poco interessato a «un falso negoziato in cui gli ayatollah mentono, imbrogliano e prendono in giro gli Usa».
Una telefonata di Donald Trump – come ha detto Araghchi – ovviamente potrebbe fargli cambiare idea. Finora, però, nonostante le giravolte semantiche del presidente americano, la chiamata non è arrivata. O, almeno, non in modo perentorio. E fra gli analisti crescono quanti profilano uno “scenario siriano” della crisi: l’implosione rapida del regime, con magari un’altra fuga a Mosca dei vertici. La principale differenza fra Teheran e Damasco è l’assenza di una forza interna, armata e con risorse sufficienti da trasformare il malcontento in insurrezione. Certo, questa potrebbe esplodere comunque. Con quali risultati, in termini di transizione democratica, non si sa.