giovedì 19 marzo 2009
Parla una delle vittime del regime comunista che negli anni 70 si rese responsabile della morte di quasi due milioni di persone. Oggi è alla sbarra Duch, il capo del centro di detenzione in cui trovarono la loro fine 14mila internati «Nelle mie tele raffiguro le torture che vidi: unghie strappate, morsi di serpente, scosse elettriche» «Non ho mai capito quale fosse il mio 'crimine'. Ero un artista, e questo forse bastava per essere considerato potenziale nemico del popolo. La mia dote però mi salvò».
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Vann Nath osserva un gruppo di giovani cambogiani soffermarsi di fronte ai suoi quadri appesi in una sala del ristorante Kith Eng a Ph­nom Penh. Gli sguardi attoniti mostra­no una certa diffidenza riguardo il rea­lismo delle scene raffigurate sulle tele: «Comprendo la loro incredulità, ma tut­to ciò che ho dipinto è accaduto vera­mente » , dice Nath, mentre ci accom­pagna nella stanza dove vive e lavora. Lui è uno dei 14mila khmer imprigio­nati a Tuol Sleng, la famigerata S- 21 ( ex liceo della capitale trasformato in cen­tro di detenzione politica), il luogo in cui venivano interrogati i presunti op­positori al regime di Pol Pot tra il 1975 e il 1978 ( diretto da quel Duch, da feb­braio messo sotto processo dal tribu­nale allestito in collaborazione con l’O­nu per i crimini del passato regime). Di quelle migliaia di oppositori, solo nove sopravvissero. Da allora, Nath de­dica la sua vita a testimoniare la pro­pria terribile esperienza, resa ancora più tragica dal fatto che molti di quegli internati erano autentici simpatizzan­ti del nuovo governo ( di cui non cono­scevano ancora la ferocia), sospettati però di non essere sufficientemente lea­li verso la dirigenza. Quando e perché è stato arrestato? Venni catturato alla fine del 1977, uffi­cialmente per aver offeso l’Angkar ( il Partito comunista al potere). Ricordo che per settimane intere cercai di ri­percorrere ogni mia parola, ogni mio gesto cercando di risalire all’attimo in cui avrei commesso qualcosa che pro­vocò il mio arresto, senza però riuscire a individuarlo. Ero un artista, e questo probabilmente bastava per essere ca­talogato come potenziale nemico del popolo. Delle 196 prigioni esistenti in Kampu­chea Democratica (il nome dato al Pae­se dal regime), la S- 21 è stata quella in cui vi fu il maggior numero di vittime. Chi vi entrava poteva uscirne solo mor­to. Che cosa la salvò? Fu Pol Pot a salvarmi! ( ride, ndr). Sì, è vero, Pol Pot ha indirettamente fatto sì che scampassi alla morte. Duch aveva notato la mia abilità artistica e Nuon Chea ( il numero due del regime) aveva commissionato un monumento raffi­gurante Pol Pot in marcia davanti a un gruppo di rivoluzionari. Avrebbe dovu­to essere costruito al posto del Wat Ph­nom ( l’antico tempio che sorge sulla collina che dà il nome alla capitale). Nel frattempo dovevo dipingere ritratti di Pol Pot. Ha mai incontrato il dittatore? Mai. L’ho visto solo in fotografia. Il regime di detenzione è sempre stato così brutale? No, verso la fine del 1978 le condizioni si fecero improvvisamente più rilassa- te, e non c’erano quasi più torture. An­che le guardie si mostravano più genti­li. Penso che i vertici khmer avvertisse­ro l’imminenza della guerra con il Viet­nam e cercava appoggi all’estero. Dopo la sua liberazione ha dipinto quadri che raffiguravano scene di vita quotidiana all’interno della prigione. È stato testimone diretto di tutto ciò che ha rappresentato? La maggior parte delle scene che di­pingo le ho viste direttamente: i prigio­nieri sdraiati e incatenati, quelli stre­mati e affamati, le unghie strappate du­rante gli interrogatori, i morsi dei ser­penti o degli scorpioni, le scosse elet­triche. Sentivo le urla di dolore, i pian­ti dei neonati e delle loro madri. Vede­vo i prigionieri caricati sui camion e portati a Choeung Ek. I camion torna­vano vuoti e tutti capivamo che fine a­vremmo fatto, come gli sventurati che vi erano saliti. Altre scene, invece, mi sono state raccontate da sopravvissuti, come il dipinto del khmer rosso che uc­cide un neonato sbattendolo contro un albero. Pensa di essere obiettivo nelle sue rap­presentazioni pittoriche o ha in qual­che modo caricato i toni allo scopo di denunciare quei crimini? È una domanda che continuo a farmi: sono stato 'onesto'? Non so. Per ciò che ho visto, posso dire di sì. Ha mai incontrato i suoi carcerieri? Sì. Ho incontrato Him Huy. Ha detto che se non avesse fatto quello che gli era stato ordinato di fare, sarebbe lui stesso stato ucciso. Ma ricordo che nei suoi occhi non vedevo al­cuna pietà per i prigionieri da lui torturati. Il mese scorso è cominciato il processo ai dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica. Che effetto le ha fatto vedere Du­ch, il direttore della S- 21, alla sbarra? Non ho provato odio, voglia di rivalsa. Voglio solo capire quale sia stato il mec­canismo che ha prodotto tale regime, tale odio del presunto nemico. Voglio capire. Non voglio vendetta. Penso di avere diritto a una spiegazione. Non mi interessa neppure che vengano con­dannati. Fosse per me li lascerei li­beri, a patto che diano spiegazioni sul­la loro condotta. Perché è stato fatto tut­to questo? Solo così potremmo evitare il ripetersi di queste tragedie. Voglio che le future generazioni siano immuni da questi pericoli. Ma servono risposte. Se il processo si limita solo a condannare, allora è stato tutto inutile. Alcuni quadri realizzati da Vann Nath, nei quali rivivono i drammatici momenti dell’esperienza vissuta nella prigione S-21 Il pittore Vann Nath, uno dei nove cambogiani sopravvissuti alla detenzione nella prigione S-21.
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