sabato 21 ottobre 2023
Il segretario Onu, Guterres, è stato al confine egiziano per sbloccare la situazione: sono passati però solo 20 camion. Israele: l’operazione di terra sarà in tre fasi. In fuga anche dal Libano
I camion al valico

I camion al valico - Reuters

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I camion degli aiuti umanitari hanno cominciato a passare attraverso il valico di Rafah. La televisione di Stato egiziana ha mostrato diversi convogli che attraversavano l'enorme cancello del valico di frontiera, entrando dal lato egiziano verso l'enclave palestinese di Gaza. I primi aiuti umanitari dunque cominciano a entrare a due settimane dal sanguinoso attacco di Hamas a Israele. La conferma è arrivata da una fonte della sicurezza e un responsabile della Mezzaluna rossa egiziana, anche se la Cnn ha fatto sapere che sarebbero passati soltanto venti camion e il valico sarebbe stato poi immediatamente richiuso.

Gli appelli della comunità internazionale

«Vi prego, fate sì che il nostro appello arrivi all’opinione pubblica globale. Imploriamo la comunità internazionale di aiutarci: Gaza ha urgente necessità di soccorsi. Rafah va riaperto subito e deve essere garantita una tregua per consentire agli operatori umanitari di lavorare in sicurezza». Marta Lorenzo, direttrice dell’ufficio Europa dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unwra  ), è abituata alle emergenze. Stavolta, però, il suo tono concitato tradisce l’ansia per l’agonia della Striscia. «Le faccio solo un esempio. Nel magazzino di Rafah (cittadina del sud a ridosso del valico , ndr) in cui abbiamo accolto 8mila sfollati del nord dell’enclave non riusciamo a dare più di un litro d’acqua a ciascuno. Quanto potranno andare avanti così?» La situazione è «catastrofica»: su questo Ong e organizzazioni internazionali concordano. Le Nazioni Unite hanno già perso nei raid sedici operatori, due ieri.

La stessa Washington è preoccupata, come dimostrano gli sforzi diplomatici per far riaprire il valico egiziano, l’unico passaggio non controllato da Israele e, dunque, esente in teoria dal blocco totale decretato da quest’ultima all’indomani del massacro del 7 ottobre. Finora, però, nonostante le promesse, Rafah era rimasto chiuso. La riapertura, annunciata per ieri, è slittata almeno ad oggi, secondo quanto affermato dal responsabile delle Nazioni Unite per l’Assistenza umanitaria, Martin Griffith. Addirittura sul posto è arrivato il segretario generale, António Guterres, per coordinare le operazioni. «È impossibile stare qui senza avere il cuore spezzato – ha commentato su X –. Dietro queste mura ci sono milioni di persone allo stremo. Da questa parte, i camion con ciò di cui hanno necessità. Dobbiamo inviarli il prima possibile». Il presidente Usa Joe Biden – il quale, durante il viaggio di mercoledì a Tel Aviv, aveva strappato il via libera premier Benjamin Netanyahu – però, prevede altre 24 o 48 ore di attesa per portare nell’enclave i primi dodici camion. «Un numero irrisorio. Siamo molto contenti degli sforzi diplomatici per introdurre i soccorsi. Ma in tempi normali, nella Striscia entrano centinaia di convogli al giorno. Dodici camion sono una goccia nel mare della crisi attuale», sottolinea Marta Lorenzo.

Abitanti di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, in coda per riempire le loro taniche e i secchi con acqua dei pozzi usata per l’agricoltura

Abitanti di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, in coda per riempire le loro taniche e i secchi con acqua dei pozzi usata per l’agricoltura - Ansa

A Gaza una situazione catastrofica

Gaza e i suoi 2,3 milioni di abitanti stanno letteralmente morendo. Di fame, di malattie curabili con farmaci banali quanto introvabili – dall’insulina al paracetamolo – e, soprattutto, di sete. Già prima dello stop alle forniture di elettricità, carburante e beni essenziali, la situazione idrica della Striscia era critica. I tre impianti di desalinizzazione pubblici e, soprattutto, l’acquedotto municipale – che comunque non eroga acqua potabile – funzionavano a intermittenza. Israele, con la compagnia statale Mekorot, garantiva meno del 10 per cento degli approvvigionamenti idrici. Ai residenti non restava che provvedere con piccoli impianti e pozzi privati, non per bere, però, perché l’acqua era troppo salata. Senza elettricità o combustibile per i generatori, ora, è tutto fermo. «Tantissimi bevono l’acqua dei pozzi agricoli perché non ne hanno altra, con il rischio di infezioni. Gli altri ci rinunciano e sono fortemente disidratati. Poi c’è la questione igienica – prosegue la direttrice dell’ufficio Europa di Unwra –. Nel nostro centro professionale adibito a rifugio ci sono 16 bagni per ventimila persone». Con un quarto delle abitazioni distrutte, gli sfollati sono oltre un milione. La metà è stata accolta nelle strutture Onu. Il 30 per cento si trova nel nord dell’enclave, da cui Israele ha più volte ordinato di evacuare. «Il fatto è che è impossibile. Oltretutto il sud è la parte più povera e urbanizzata di Gaza, un territorio già dove più della metà degli abitanti va avanti grazie all’assistenza umanitaria. Non c’è spazio per allestire dei campi profughi. Noi stiamo ospitando quante più persone possibile, ma moltissimi sono rimasti fuori, senza riparo. Le condizioni sono così disperate che tanti hanno deciso di tornare indietro. “Almeno moriamo in casa nostra”. La verità è che nessuno sa che cosa fare».

La tregua lontana

I bombardamenti proseguono con «un’intensità senza precedenti», sottolineano le stesse forze armate israeliane. Oltre 4.100 persone sono rimaste uccise, i feriti sono più di 13mila. Curarli è duro con solo quattro degli 11 ospedali ancora funzionanti e a regime ridottissimo. La pioggia di fuoco, oltretutto, ribadisce lo Stato ebraico, è solo la prima delle tre fasi distruggere la capacità operativa di Hamas, secondo quanto detto alla Knesset dal ministro della Difesa, Yoav Gallant. A questa seguirà «una fase intermedia per eliminare i nidi di resistenza e, infine, la creazione nella Striscia di una nuova realtà di sicurezza sia per i cittadini di Israele sia per gli stessi abitanti di Gaza».

Al momento, dunque, la possibilità di una tregua sembra esclusa. Ieri Hamas ha rilanciato la proposta – respinta al mittente dagli israeliani – del rilascio degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco. E «per ragioni umanitarie» – ha precisato – ha liberato Yehudit Raanan, di 59 anni, e la figlia Natalie, 18 anni, cittadine statunitensi venute da Chicago per celebrare la festa del Sukkot con i familiari e rapite nel kibbutz di Nahal Oz. Le due donne sono state consegnate alla Croce Rossa e subito portate in Egitto.
Se il fronte sud resta incandescente, a preoccupare Israele e la comunità internazionale è l’aumento della tensione a nord, alla frontiera con il Libano, dove Hezbollah ha lanciato una trentina di razzi contro lo Stato ebraico. Con il moltiplicarsi degli scontri, le autorità hanno, dunque, deciso di evacuare i 20mila residenti di Kyriat Shmona e quelli di tutti i villaggi e kibbutz a meno di cinque chilometri dal confine. Da parte loro, Germania, Francia e Usa hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare il Paese dei Cedri. Nessuno lo dice apertamente. Ma il timore dell’estensione del conflitto è forte.

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