venerdì 16 aprile 2021
L’esecutivo di unità nazionale è composto dai leader deposti dopo il golpe, compreso il capo di Stato Win Myin «È formato dal popolo e per il popolo, insieme prevarremo»
Una protesta contro la giunta militare golpista a Mandalay, in Myanmar

Una protesta contro la giunta militare golpista a Mandalay, in Myanmar - Ansa / Epa

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A poco più di due mesi dall’avvio delle prime proteste contro i militari che hanno preso il potere in Myanmar il primo febbraio l’opposizione al regime ha dato vita a un governo-ombra di unità nazionale. A farne parte, saranno rappresentanti della maggioranza politica che faceva capo alla Lega nazionale per la democrazia nel Parlamento, ora sospeso, che già avevano dato vita a un esecutivo clandestino, i leader delle proteste e le etnie che hanno rotto la tregua con le forze armate reagendo al massacro della popolazione civile.

Obiettivo dichiarato, quello di chiudere definitivamente la partita con i militari al potere ora dopo averlo detenuto per mezzo secolo e averlo solo formalmente affidato ai civili nell’ultimo decennio, ma anche di ripristinare la democrazia e di rendere effettiva la struttura federale del Paese.

Al vertice è stato indicato il presidente Win Myint, deposto dai golpisti e sostituito con l’ex governatore militare di Yangon, ma anche, con il ruolo di consigliere di Stato (ovvero un premier di fatto) giù ricoperto nell’ultima legislatura, la Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Si tratterà di un governo «formato dal popolo e per il popolo» ha twittato il dottor Sa Sa, ministro della Cooperazione internazionale e portavoce del nuovo esecutivo, che ha anche definito «imperativo» che le diplomazie «neghino alla giunta il riconoscimento internazionale che cerca e le neghino la possibilità, attraverso l’accesso a risorse e armi, di continuare a uccidere la nostra gente», ma anche «che il mondo fornisca un generoso aiuto e supporto al nostro popolo, che continua a essere attaccato e perseguitato da una giunta la cui spietatezza e brutalità non conoscono limiti».

Il piano diplomatico è sicuramente essenziale, perché molti Paesi, in particolare occidentali ma anche diversi in Asia, hanno indicato come insostituibile il ruolo di Aung San Suu Kyi e della sua Lega nazionale per la democrazia ma ora saranno chiamati ad essere consequenziali a questa posizione. D’altra parte, al momento l’organizzazione del vertice del 24 aprile dei leader del Sud-Est asiatico, per discutere della crisi birmana, vede come rappresentante del Myanmar il generale Min Aung Hlain, a capo del regime, segnalando la persistente ambiguità dei Paesi dell’area fedeli al principio della «non ingerenza».

Essenziale potrebbe essere anche la formazione di un «esercito federale» a cui i leader politici hanno chiamato più volte dalla clandestinità. Una mossa che, se dovesse concretizzarsi potrebbe vedere fianco a fianco milizie etniche agguerrite e rodate da decenni di lotta contro militari che durante la dittatura li hanno sostanzialmente segretati negando loro diritti e e possibilità. Un loro coinvolgimento rinsalderebbe il processo di unità nazionale, tra le priorità di Aung San Suu Kyi.

Il rischio è però che anche le etnie – un terzo della popolazione complessiva – si dividano su opposti fronti accentuando il rischio di una guerra civile. In ogni caso, un reale sostegno internazionale a un Myanmar democratico e pacificato è imperativo ma rischia di essere ancora negato da Pechino come da Mosca.

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