domenica 27 novembre 2016
Gli esperti: nessuno sta disarmando
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C’è una danza macabra intorno all’atomo. Fervono progetti. Si accavallano piani di lungo periodo. Il nucleare attrae: è l’arma “ultima” per antonomasia. Per molti regimi un’assicurazione sulla vita. Nessuno dei Paesi nucleari tende al disarmo. Anzi. Le lancette della storia corrono in fretta. Se, pochi anni fa, Vladimir Putin pensava che la modernizzazione delle forze convenzionali russe avrebbe ridimensionato il ruolo dell’arma nucleare, i fatti di oggi dicono l’opposto. L’arsenale strategico russo sta conoscendo una seconda giovinezza. Il crollo del 1989 è un ricordo sfumato. Solo i trattati che la vincolano, hanno arginato una corsa frenetica di Mosca al nucleare. Il New Start con Washington terrà fino al 2021.

Obbliga le due potenze a rispettare un tetto di 1.550 testate in allerta e un massimo di 700 missili e bombardieri in prima linea. Per tenervi fede c’è tempo fino al 2018. Ma i russi sembrano optare per la cattiva strada. Fra marzo e settembre hanno aumentato il numero di testate dispiegate. Temono l’accerchiamento in fieri della Nato. Nonostante le difficoltà economiche hanno investito quest’anno 754 milioni di dollari nelle sole forze nucleari. Erano stati 693 milioni nel 2015. Il New Start è l’unico strumento che abbiamo. Ma fa acqua da tutte le parti. È meno restrittivo degli accordi precedenti quanto a caratteristiche dei missili. E infatti il Cremlino sta cercando un punto di equilibrio ottimale fra risorse instabili, capacità industriali in ripresa e rafforzamento delle capacità dissuasive. Ha riavviato le linee produttive dei bombardieri strategici, armerà otto nuovi sottomarini lancia-missili e puntella da tempo le forze missilistiche strategiche. Ha una dottrina ambigua. Secondo la fondazione Fas, potrebbe impiegare armi nucleari in una gamma di scenari molto più ampia di quanto dichiarato.

Da qualche anno sta testando missili intercontinentali dal raggio ridotto. Forse per giocare su più tavoli, perché la situazione sta sfuggendo di mano. Il fatto che la Cina abbia riaperto il dossier dei missili a portata intermedia ha conseguenze globali. Quando venne fuori la notizia, due anni fa, la Russia si mostrò molto contrariata. Pechino oggi guarda altrove. Con i missili intermedi può colpire Guam, le Filippine, lo stretto di Ormuz e tutte le basi navali indiane.

Ma un domani potrebbe tenere sotto scacco l’intero territorio russo. E Mosca sta prendendo le contromisure. Ci sono sospetti che stia già violando sottobanco il trattato con Washington sulle forze nucleari intermedie. Potrebbe denunciarlo apertamente, come ha fatto da poco con l’accordo sul plutonio. Salterebbe un patto cruciale, che ha permesso lo smantellamento degli SS-20 e che dal 1987 è una pietra miliare della sicurezza europea. Basterà l’ombrello nucleare della Nato a dissuaderla? Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sono della partita. Stanno mobilitando decine di miliardi di dollari per svecchiare i loro arsenali.

Pur aspirando a un modus vivendi con la Russia, Donald Trump potrebbe confermare le posizione americane di sempre. Il nucleare è intangibile»: Jeff Sessions e Randy Forbes, che consigliano il neo-presidente sulle questioni militari, hanno fugato ogni dubbio. In ballo c’è una cifra colossale: 348 miliardi di dollari da qui al 2024, che serviranno per rinnovare i centri di ricerca, finanziare lo sviluppo dei bombardieri strategici, dei sottomarini lanciamissili di nuova generazione, di vettori terrestri d’avanguardia e delle bombe B-61, l’arma di tutti gli ombrelli americani, in Europa come in Asia orientale. Se Washington non offrirà garanzie sufficienti ai giapponesi e ai sudcoreani, Tokyo e Seul saranno le prossime potenze nucleari in Estremo Oriente.

La Corea del Nord sta marciando a tappe forzate verso le armi nucleari e i missili, unica garanzia di sopravvivenza del regime. Il think tank Jane’s stima un arsenale di 500-700 vettori pronti all’uso. In caso di guerra, Pyongyang potrebbe sparare fino a 72 missili all’ora. Può già colpire il vicino meridionale, il Giappone e le basi americane di Guam. Quando Barack Obama aveva ipotizzato un ammorbidimento della dottrina d’impiego americana, nell’estate 2016, al Pentagono e al Congresso insorsero. Soprattutto i repubblicani, che minacciano da tempo di far saltare anche l’accordo sul nucleare iraniano. Una pessima notizia, in primis per il trattato di non proliferazione. L’Iran ne fa parte, ma non esiterebbe un attimo a dotarsi di armi nucleare. Padroneggia l’intera filiera atomica. In poche settimane avrebbe la sua arma finale. Una mossa che scatenerebbe una corsa all’atomo in tutto il Medio Oriente, a cominciare dall’Arabia Saudita e dalla Turchia.

Forse sarebbe meglio prendere atto che negli equilibri fragilissimi del Vicino Oriente, Teheran è un attore ineludibile. Ha un ruolo equilibratore anche nella contrapposizione fra sunniti e sciiti, e i suoi interessi regionali coincidono in buona parte con i nostri. C’è già il Pakistan che prolifera, con sviluppi deleteri nelle armi nucleari tattiche. L’“effetto domino” è dietro l’angolo. Fermiamolo, prima che sia troppo tardi.

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