domenica 27 novembre 2016
Nonostante 38 defezioni, la risoluzione dell’Assemblea generale approvata prevede la convocazione nel 2017 di una Conferenza per creare uno strumento giuridicamente vincolante
Nucleare, l'Onu riprova a svuotare gli arsenali
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«Donald Trump non può avere i codici nucleari». Uno scrosciare di applausi accolse queste parole di Barack Obama. Quando il presidente le pronunciò, il 21 ottobre durante un comizio a Miami, la campagna elettorale volgeva al termine. E tutti – esperti e comunità internazionale – scommettevano senza indugi sulla candidata democratica Hillary Clinton. Sei giorni dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione L.41, con l’ok di 123 Paesi e il «no» dell’Italia oltre che delle potenze nucleari. Il provvedimento, già tentato in passato, è stato interpretato da parte della società civile, pur con le dovute cautele, come un balzo in avanti verso il disarmo atomico. Il testo prevede la convocazione, nel 2017, di una Conferenza per creare uno strumento giuridicamente vincolante che metta bando gli arsenali nucleari. Da quel voto al Palazzo di Vetro è trascorso esattamente un mese. Il panorama mondiale, però, è imprevedibilmente mutato. L’8 novembre, i cittadini Usa hanno ribaltato i prognostici. Il prossimo 20 gennaio, dunque, Obama dovrà consegnare i suddetti codici a Trump.

Ansioso di ripristinare la “grandeur” statunitense, il magnate propone una politica, al contempo, isolazionista e muscolare. Se da un lato, il nuovo inqui- lino della Casa Bianca ventila il disimpegno dal Medio Oriente e un’alleanza con la Russia per risolvere il conflitto siriano, dall’altro è insofferente nei confronti della politica “morbida” del predecessore con le potenze asiatiche e, soprattutto, con l’Iran. La scelta di Mike Pompeo come direttore della Cia, tra i più strenui critici dell’accordo con Teheran sul dossier nucleare, è eloquente. In questo scenario cangiante, costellato di incognite e tensioni, si svolgerà la conferenza Onu per l’adozione di un trattato che ponga fuori legge gli arsenali nucleari. Se, fin dall’inizio, le chance di raggiungere tale obiettivo parevano risicate, ora le possibilità si restringono ulteriormente.

A rendere fragile la risoluzione – e dunque lo stesso summit – il significativo numero di defezioni: 38. Non è, però, solo una questione di numeri. All’appello mancano le tessere principali del puzzle. Degli otto membri del “club nucleare' – cioè degli Stati dotati di questi armamenti – solo uno si è espresso a favore: la Corea del Nord (che ufficilmente dichiara giò di possederne, anche se gli esperti dubitano). E, data la continua retorica bellicista del regime, non è facile credere alle sue buone intenzioni. India e Pakistan, anche loro come Pyongyang colossi atomici non aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare ( Tnp) del 1968, si sono astenuti. I cinque “vecchi”dell’atomica – che avevano già la bomba al momento del Tnp e, sottoscrivendo il patto, si sono impegnati a non produrne altre – hanno accolto con scetticismo la proposta dell’As- semblea. Usa, Russia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto fronte comune per il «no».

Unica eccezione la Cina, che si è astenuta. L’Europa, ancora una volta, ha agito in ordine sparso. Venti Paesi – tra cui l’Italia – hanno seguito la scia di Londra e Parigi, benché un documento del Parlamento di Strasburgo avesse esortato i propri membri a pronunciarsi per il «sì». A New York, dunque – evidenziano vari studi dell’Archivio Disarmo italiano – si è riproposta la spaccatura emersa prima nelle tre Conferenze dell’iniziativa umanitaria – Oslo 2013, Nayarit 2014, Vienna 2015 – e, poi, in quella di revisione quinquennale del Tnp, dell’aprile-maggio 2015. Non a caso quest’ultima si è conclusa senza l’adozione di un testo condiviso. La contrapposizione nasce dalla volontà di un gruppo di Stati – in primis Messico, Austria e Norvegia – di imprimere un’accelerazione al disarmo nucleare. Puntando sull’adozione di misure vincolanti per la proibizione e l’eliminazione di tali armamenti.

Ad essere penalizzata, dunque, non sarebbe più solo la proliferazione bensì il possesso. Un “salto” che mette in crisi la strategia della «deterrenza » vigente fin dai tempi della Guerra fredda. L’Alleanza Atlantica ne ha fatto uno dei suoi pilastri. Tanto che, in Europa, cinque Paesi Nato non nucleari ospitano testate Usa B-61 per un totale di duecento unità. Si tratta di Belgio, Germania, Paesi Bassi, Turchia e, non ultima, l’Italia, nei siti di Ghedi Torre e Aviano. Anzi, propri qui e nella turca di Incirlik è concentrata la maggior parte delle bombe. Il diniego del governo di Roma, però – sostengono fonti vicine al dossier –, non è motivato solo da una fedeltà atlantica. L’Italia, in effetti, s’è molto spesa in sede internazionale per la messa al bando dei test atomici e del materiale fissile, nonché per una maggior trasparenza nella verifica degli arsenali.

La diffidenza – affermano ancora le stesse fonti – sarebbe dovuta all’approccio rigido proposto nella risoluzione Onu: Roma persegue il disarmo attraverso un processo progressivo. In effetti – mette in luce anche uno studio di Adriano Iaria per Archivio Disarmo –, senza il sostegno delle potenze nucleari, qualunque testo approvi la Conferenza Onu rischia di restare sulla carta. Non di meno, il documento – conclude Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio – potrebbe avere una preziosa funzione di stimolo politico per mettere davvero fine all’incubo atomico.

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