mercoledì 15 dicembre 2010
Si prevede di abbattere 88 case per fare spazio alla ricerca dei resti della Città di David. Gli abitanti protestano e i ragazzi inscenano una piccola Intifada quotidiana a colpi di pietre. Associazioni di ebrei ultraortodossi comprano o reclamano edifici, per riequilibrare la demografia in un quartiere tutto arabo.
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DAL NOSTRO INVIATO A GERUSALEMME I turisti che scendono le ampie gradi­nate e s’inoltrano nei tunnel sotterra­nei della 'Città di David' sono visibil­mente emozionati. «Questo è il luogo do­ve tutto ha avuto inizio», spiega la giovane guida citando passi della Bibbia. Le mura della città vecchia sono alle nostre spalle: la 'Città di David' sorge a ridosso del Mon­te del Tempio, su una piccola collina buca­ta dagli scavi per riportare alla luce le ve­stigia di quel che viene ritenuto il nucleo più antico della capitale. Il sindaco, sostenuto dal governo, intende realizzare qui un grande parco archeologi­co che prenderà il nome di 'Giardino del Re'. E per farlo è deciso ad abbattere 88 ca­se del quartiere palestinese di Silwan. «Fi­nora hanno consegnato ventidue ordini di demolizione, hanno già raso al suolo cin­que abitazioni», ci dice Fakhri Abu Diab, u­no dei destinatari. Mostra con aria affranta il pezzo di carta con cui il municipio gli ha intimato lo sgombero. «Sono arrivati cinque uomini armati in assetto di guerra – racconta – hanno rotto il vetro della porta, mi hanno trattato come un delinquente». Dal quel giorno i suoi cinque nipotini lo guardano con sospetto: «Nonno, cosa hai fatto di ma­le? Perché ci vogliono cacciare?». Fakhri non si rassegna, così come gli altri 1.500 palestinesi che subiranno il suo stesso destino. Proprio di fronte alle ruspe che dovranno spianare la zona hanno e­retto un tendone che vor­rebbe essere il quartier generale della resistenza. Campeggia una scritta: «Re David si batteva per gli oppressi, adesso nel suo nome distruggono le nostre case». Silwan è un intrico di viuzze e case basse ammucchiate disordinatamente sotto il Monte degli Ulivi, una favela che detiene il record della povertà e della disoccupazio­ne, con un’altissima densità abitativa, oltre 50mila persone. Da qualche anno vi si sono insediati 400 ebrei ultra-ortodossi le cui ca­se sono sorvegliate da poliziotti e guardie private (pagati con fondi pubblici). Girano per le strade dissestate e polverose del quar­tiere su grossi Suv coi vetri oscurati e prote­zioni di ferro per proteggersi dai lanci di pie­tre. Quasi ogni giorno esplode la collera dei ragazzi palestinesi con conseguenti sas­saiole. La chiamano 'la piccola Intifada di Silwan', contro cui le autorità israeliane non esitano a usare le maniere forti. Nell’ultimo anno la polizia ha fermato e interrogato più di 1.200 ragazzi, non risparmiando loro in­sulti e percosse. Anche su bambini sotto i 12 anni, è l’accusa lanciata da un gruppo di me­dici e psicologi israeliani in una lettera a­perta al presidente Shimon Peres. Silwan rappresenta la punta avanzata della strategia di penetrazione ebraica nei quar­tieri arabi di Gerusalemme Est, rivendicata dai palestinesi come fu­tura capitale del loro Sta­to. Ricche associazioni ul­tra- ortodosse comprano o reclamano edifici nella parte orientale della città. La più famosa è 'Elad', il cui presidente David Bee­ri lavora in stretto contat­to con la municipalità di Gerusalemme e gestisce il turismo archeologico. Poi c’è l’organizzazione 'Ateret Cohanim', specializzata nell’acqui­sto e nell’esproprio delle case palestinesi. In genere, utilizza dei prestanome e viene allo scoperto solo dopo che il venditore se n’è andato all’estero per sfuggire alla vendetta degli abitanti del quartiere. Si moltiplicano le battaglie legali che finiscono quasi sem­pre con il tribunale israeliano che dà ragio­ne agli acquirenti. Per Udi Ragones, porta­voce di 'Elad', è tutto assolutamente nor­male. «In Israele c’è libertà – risponde sera­fico alle obiezioni –. Nessuno proibisce a un arabo di comprare casa a Gerusalemme o­vest. Perché allora impedire ad un ebreo di acquistare a Gerusalemme est?». Nuclei d’insediamento ebraico sono ormai presenti in tutti i quartieri orientali, perfino in cima al Monte degli Ulivi, dove è stata is­sata una gigantesca bandiera d’Israele. «Neppure alla Knesset ne hanno una così grande», commenta il vecchio Abu Shain, che abita lì a fianco. E dove risulta difficile comprare scatta l’ordine d’esproprio. Nel quartiere di Sheikh Jarra, pochi metri al di là della Linea Verde, sono già 28 le famiglie palestinesi che hanno ricevuto lo sfratto. Come gli al-Gawi, arrivati qui nel 1956 in fuga da Haifa. La Corte non ha riconosciuto la validità dei loro documenti, risalenti al mandato giordano, ed ha attribuito la pro­prietà ai discendenti di una famiglia ebrea che abitava qui prima del 1948. Scortati dalle forze dell’ordine hanno preso pos­sesso dell’edificio su cui hanno scritto trionfanti: «I figli sono tornati a casa!». La tensione è palpabile, alterchi e scontri so­no all’ordine del giorno. «Se loro hanno di­ritto di riprendersi quel che avevano pri­ma che venisse fondato lo Stato d’Israele, allora anche noi vogliamo riavere le case che siamo stati costretti a lasciare ad Hai­fa e a Jaffa», protestano i palestinesi di Sheik Jarra, che temono di venir cacciati una se­conda volta. Ma da queste parti non esiste il principio di reciprocità. L’obiettivo evidente è quello di riequilibra­re la demografia, aumentando la presenza ebraica nella zona araba. Una strategia di svuotamento progressivo dei quartieri pa­lestinesi che s’accompagna alla costruzione di nuovi insediamenti israeliani nell’area che circonda Gerusalemme Est. Il nego­ziato con i palestinesi è bloccato, la mora­toria sulle colonie proposta da Obama non è stata finora accettata dal governo Ne­tanyahu, e così sono ripartiti i progetti e­dilizi che prevedono 625 nuovi apparta­menti nella colonia di Pisgat Zeev, a nord­est della capitale, e 130 nuovi alloggi a Gi­lo, verso sud-est. La domanda è elevata, an­che perché chi sceglie d’abitarvi gode di forti agevolazioni fiscali e non paga tasse sulla casa e sui terreni. Ma per il governo israeliano non si tratta di colonie, bensì di nuovi quartieri all’interno del perimetro di Gerusalemme capitale. Il premier Netanyahu lo ha spiegato in un in­tervento di qualche mese fa all’Aipac (il Co­mitato per gli Affari Pubblici Israelo-Ameri­cani). «Il popolo ebraico costruì Gerusa­lemme 3.000 anni fa e continua a costruir­la ancora oggi. Gerusalemme non è un in­sediamento, è la nostra capitale», ha detto il leader israeliano, ricordando che su questo punto il suo esecutivo ha mantenuto la po­litica dei governi precedenti, tanto laburisti che della destra Likud, e che l’annuncio di nuove abitazioni non viola nessuno degli impegni. «Tutto il mondo sa che questi quar­tieri (dove Israele pianifica le costruzioni) saranno parte di Israele in qualunque ac­cordo di pace. Pertanto, costruire in quelle zone non impedisce la possibilità di una so­luzione a due Stati», ha ribadito Netanyahu. Ma i palestinesi non sono d’accordo. «Il di­segno è chiaro: si vuole separare definiti­vamente la zona orientale della città dal-­l’entroterra, rompendo la continuità etni­ca e culturale tra Gerusalemme Est ed i Ter­ritori palestinesi, dove sorgono Ramallah e Betlemme – è la spiegazione di Khalil To­fakgi, già negoziatore palestinese negli an­ni Novanta ed esperto d’urbanistica. – Il fu­turo Stato palestinese? Nella migliore del­le ipotesi sarà un insieme di cantoni colle­gati da stretti corridoi in mezzo a vasti in­sediamenti ebraici». 'Al Quds', la Gerusa­lemme araba, non ne diventerà mai la ca­pitale. A Silwan e a Sheikh Jarra lo sanno be­ne. Non per nulla alle finestre delle case minacciate di sgombero hanno appeso le bandiere della Turchia, il Paese di Erdogan divenuto l’ultimo improvvisato avvocato della causa palestinese.
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