domenica 23 maggio 2021
Si apre alla Corte penale internazionale, lunedì 24, il processo sulle stragi nel Darfur, che si preannuncia come una Norimberga africana. Intervista al giudice Rosario Aitala, magistrato della Corte
Sono ancora migliaia gli sfollati nei campi del Darfur

Sono ancora migliaia gli sfollati nei campi del Darfur - Ansa

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«Dobbiamo invertire il ciclo della violenza e dell’odio, di cui parla spesso papa Francesco, anche attraverso l’affermazione giudiziale della verità e delle responsabilità personali. Le atrocità di massa sono sempre atti politici, inerenze del potere, e sono unite da un filo invisibile: il processo di de-umanizzazione e negazione della dignità delle vittime. La giustizia può contribuire a scardinare i meccanismi dell’odio». Rosario Aitala, magistrato, è giudice dal 2018 della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi), che giudica genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È titolare, fra l’altro, dei procedimenti sulla guerra nella Repubblica Centrafricana e sui crimini nel Darfur, un processo che si apre domani e si preannuncia come una vera Norimberga africana.

C’è chi ha criticato la Corte penale per le troppe indagini rimaste soltanto sulla carta…

Le difficoltà obiettive non mancano, le risorse sono modeste e la Corte per le indagini e i mandati di arresto dipende dalla cooperazione statale, spesso timida o ambigua. Ma la Corte può e deve fare meglio, a partire dalla coscienza di sé. Non è un’agenzia dei diritti umani, non ha il compito di denunciare ma di indagare e giudicare secondo il diritto. Deve definire le priorità, anche in base alle prospettive di successo. La giustizia annunciata che non si realizza approfondisce il dolore delle vittime e demolisce la credibilità dell’istituzione.

Ma il modello della Cpi funziona ancora?

Direi che comincia a funzionare ora. Negli ultimi tempi abbiamo invertito la tendenza e avviato procedimenti importanti. Prima si erano addensate sulla Corte aspettative inappropriate, come se potesse cambiare il mondo da sola, senza o contro il volere degli Stati. Se ne misurava l’efficacia su parametri erronei, contando le condanne. Un organo giudiziario si valuta sul rigore giuridico delle decisioni, la durata dei procedimenti, il rispetto dei diritti di difesa e delle vittime. L’indipendenza e l’imparzialità, nel nostro caso credo indiscutibili.

Quali sono gli esempi virtuosi?

Considero significativi i procedimenti che intervengono su conflitti civili in corso chiamando a rispondere delle atrocità tutte le parti in causa. È un modo per ricostruire il tessuto sociale lacerato e mostrare alla gente che il sangue innocente è versato sempre per il potere, sempre contro le persone. La violenza criminale e terroristica riempie vuoti politici.

Quali testimonianze l’hanno toccata di più in questi anni?

Lascio da parte le mie impressioni personali. Gli Stati dovrebbero riflettere sulle conseguenze della sofferenza dei bambini che perpetua il male nelle società che verranno. E su quella delle donne. Quando viene calpestata la dignità di una donna per motivi politici, etnici o religiosi, la ferita brucia sull’intera comunità. Quando ad una collettività viene negato il diritto di esistere – ciò che chiamiamo genocidio – la coscienza collettiva dell’intera l’umanità si impoverisce.

I risarcimenti in denaro per le vittime sono un approccio corretto?

Davanti agli occhi dei giudici scorrono pochi fotogrammi di pellicole infinite. I risarcimenti monetari si indirizzano alle poche vittime dei fatti imputati, necessariamente una porzione infinitesima degli eventi. Sono più opportune riparazioni che si rivolgono all’intera comunità ferita: scuole, assistenza sanitaria e psicologica, occasioni di sviluppo.

Ha visto mai del pentimento negli occhi di un condannato?

Fa riflettere un processo di cui non mi sono occupato. L’ex generale dell’Lra ugandese Dominic Ongwen è stato di recente condannato a 25 anni per crimini di guerra e contro l’umanità. Ongwen fu rapito a 9 anni e arruolato come bambino soldato. Fece carriera e da adulto da vittima divenne carnefice. I giudici lo hanno condannato, ma hanno giustamente bilanciato la malvagità dei suoi crimini con la sofferenza che aveva patito da bambino.

Che ruolo ha l’Italia nella Corte penale internazionale?

Il presidente Sergio Mattarella ha ricordato più volte che la difesa della dignità umana, dei diritti e delle libertà è la cifra internazionale del nostro Paese. Dobbiamo esserne orgogliosi. La Corte deve moltissimo all’Italia, vi è riflessa la nostra cultura del diritto e dei diritti. Affermare la verità e le responsabilità personali è il compito della Corte. Leonardo Sciascia ha scritto che la verità sta nel fondo di un pozzo: lei guarda il pozzo e vede la luna o il sole, ma se salta dentro non trova né la luna né il sole, trova la verità. Non possiamo limitarci a osservare dall’alto e denunciare, dobbiamo balzare dentro, con le sole armi del diritto. La giustizia è in quel salto.

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