mercoledì 8 maggio 2024
Tre anni di dittatura militare hanno provocato migliaia di vittime e riportato il Paese indietro di vent’anni I vescovi birmani promuovono direttamente il supporto alla popolazione
Aung San Suu Kyi, nel 2019 con il primo ministro cambogiano Hun Sen, durante la visita di stato a Phnom Pehn da parte della premio Nobel che all’epoca era presidente di fatto del Myanmar

Aung San Suu Kyi, nel 2019 con il primo ministro cambogiano Hun Sen, durante la visita di stato a Phnom Pehn da parte della premio Nobel che all’epoca era presidente di fatto del Myanmar - Reuters

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Il conflitto in corso in Myanmar continua ad aggravarsi. Attivato dal ritorno al potere dei militari tre anni fa – dopo una parentesi democratica sottoposta alla loro pretesa di controllo contestata dalla Premio Nobel Aung San Suu Kyi –, ha provocato migliaia di vittime, tre milioni di profughi e devastazioni che hanno riportato il Paese indietro di un ventennio. La comunità internazionale sembra impotente. Né le diplomazie regionali, che devono calibrare delicati equilibri interni all’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), né le Nazioni Unite, dove le richieste di condanna e i veti si incrociano annullandosi, riescono a portare le parti a un dialogo e a un cessate il fuoco. Per 55 milioni di persone, di cui due terzi birmani e un terzo appartenente a decine di diverse etnie, sono scarse le possibilità di ricevere sostegno anche per le limitazioni imposte dalla giunta. Gli aiuti possono arrivare solo attraverso i campi di raccolta, ai quali i dissidenti non accedono per non correre rischi. Le frontiere restano in buona parte chiuse. Se la Thailandia ha aperto un varco per accogliere i birmani in fuga, l’India sta rimpatriando parte di coloro che vi avevano trovato rifugio. La recente decisione della giunta di bloccare l’emigrazione degli uomini per impedire che sfuggano alla coscrizione obbligatoria non potrà che avere effetti negativi su una popolazione terrorizzata e impoverita. Nonostante questa situazione e i rischi che hanno causato la morte di diversi suoi operatori e sacerdoti, la Chiesa birmana si è fatta mediatrice di dialogo e promuove direttamente il supporto alla popolazione.

Mette a disposizione le sue strutture e il suo personale, offre quanto riesce a raccogliere e distribuire per alleviare le prime necessità di chi, sfollato dai villaggi o terrorizzato, chiede soccorso ma anche speranza. Proprio la speranza di pace dà il titolo al Dossier diffuso dalla Conferenza episcopale italiana sulle proprie iniziative per il Myanmar: dal 1991, grazie ai fondi raccolti con l’8xmille, si sono fatti interventi per quasi 18,5 milioni di euro attraverso 238 progetti approvati dalla Cei con il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli. Si va dall’istruzione alla sanità, dalla micro imprenditorialità alla lotta alla tossicodipendenza.

Il dossier Myanmar. Abbracciare l’alba della pace riprende il titolo del messaggio pasquale in cui l’arcivescovo di Yangon, cardinale Charles Maung Bo, invitava i fedeli a prestare ascolto «all’accorato appello di pace che emana dal profondo del cuore di Papa Francesco ed echeggia in tutto il nostro mondo ferito». Una speranza di futuro che, come disse il Papa nel suo viaggio in Myanmar del novembre 2017, «non può prescindere da una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, di ogni gruppo etnico e della sua identità, dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune». Nel documento la Conferenza episcopale ricorda che sul campo «centinaia di religiose, sacerdoti e volontari con i propri vescovi cercano ogni giorno di ravvivare la speranza e lo spirito di solidarietà tra la popolazione cattolica e non».

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