venerdì 20 maggio 2022
Il segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede ha incontrato il ministro degli Esteri Kuleba e visitato le cittadine bombardate intorno a Kiev
Gallagher a Bucha, Voskel e Irpin: «Un orrore che strazia il cuore»
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Diana e Nikolai camminano mano nella mano verso la grossa chiazza di terra che interrompe la distesa verde. Si fermano di fronte alla sagoma in ferro di una Croce che regge una Pietà bianca, di gesso. E recitano una preghiera silenziosa. «Qui c’erano i nostri vicini», dice Diana, indicando il terreno smosso che, fino ha un mese fa, ha ospitato i corpi di oltre cento – tra i 112 e i 116, la cifra non è chiara – abitanti di Bucha, vittime dell’occupazione russa. Di loro, un terzo erano donne, due bimbi. La coppia abita nel condominio adiacente. Come gran parte dei 45mila abitanti del sobborgo, a una ventina di chilometri di Kiev, è fuggita prima dell’arrivo delle truppe di Mosca, il primo marzo. «Siamo tornati da qualche settimana. Fra i primi del nostro palazzo: ieri notte vedevamo tutte le finestre buie. Finalmente abbiamo trovato il coraggio di venire alla fossa comune.

È dura, ma dovevamo farlo. Ora è il tempo di piangere i nostri morti, per lasciarli andare. E poterci concentrare sul futuro. Alla fine di giugno ci sposeremo proprio qui», dice la giovane, indicando la chiesa ortodossa di Sant’Andrea, di fronte al cimitero improvvisato dal parroco, Andriu Halavin, nei giorni cruenti seguiti all’irruzione dei russi. «I combattimenti ci impedivano di raggiungere il camposanto. Nel mentre, i cadaveri si ammucchiavano per le strade. O all’obitorio, senza elettricità, tagliata dal Cremlino », afferma il sacerdote. Così, con un gruppo di volontari, ha deciso di seppellirli nel prato alle spalle della chiesa. Con il ritorno di Bucha sotto il controllo ucraino, i corpi sono stati esumati e sepolti in tombe vere e proprie. L’ormai ex fossa è diventata luogo di pellegrinaggio spontaneo per i residenti che, pian piano, tornano a casa. Qualcuno ha lasciato un ramo di lavanda ai piedi della Croce. Un altro, una colomba azzurra e gialla, i colori nazionali. Un tacito augurio di pace in quello che è diventato uno dei simboli più tragici della guerra.

Ieri, a pregare davanti alla Pietà, è voluto recarsi anche monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede che ha fatto tappa nella capitale dopo due giorni a Leopoli. L’arcivescovo ha percorso la “geografia del dolore” di Kiev per portare «la vicinanza di papa Francesco al popolo ucraino, in particolare alla luce dell’aggressione della Russia», come ha sottolineato al termine dell’incontro con il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba. «Racconterò al Santo Padre tutto quello che ho visto e sentito, le aspettative della gente. Poi deciderà lui», ha risposto ai giornalisti che gli domandavano su un possibile viaggio di Francesco. Monsignor Gallagher ha ribadito la disponibilità della Santa Sede a favorire il negoziato: «Qualunque attività di mediazione richiede la richiesta di entrambe le parti. Se la riceveremo, siamo pronti ad aiutare». Quindi ha aggiunto: «Bucha mi ha colpito nel profondo. Perché è un luogo in apparenza così pacifico, così normale...». Costruita tra una lussureggiate foresta e il lago, la cittadina sembra un’oasi di tranquillità per chi vuol fuggire il caos metropolitano. E questo è stata prima che il suo nome diventasse sinonimo di carneficina. A differenza dei sobborghi vicini di Irpin, Gostomel, Voskel – teatro dei combattimenti –, Bucha non ostenta il suo marchio di sofferenza con file di case sventrate, parchi gioco carbonizzati, carcasse di auto e mattoni accumulati agli angoli delle strade. È necessario soffermare lo sguardo sui dettagli. Gli sfregi sulle pareti esterne del centro di riabilitazione infantile Preminesti, i cui scantinati sono state trasformate in camere di tortura dagli occupanti. O i cocci di vetro lungo la via Iablunska, la «strada della morte», dove i paracadutisti del Cremlino avevano insediato la propria base nel capannone di una fabbrica. Su quell’asfalto, all’indomani dal loro ritiro, sono state trovate decine di cadaveri. Almeno otto di loro, in base al video di un testìmone, che risale al 4 marzo ed è appena stato diffuso dal New York Times, sarebbero stati uccisi a sangue freddo dai soldati. Uno dei numerosi «crimini di guerra» su cui indagano l’Onu, la Corte penale internazionale e varie Ong.

«È stata una mattanza. Dei 2mila residenti rimasti a Bucha durante l’occupazione, 400 sono stati assassinati: uno su cinque. Deliberatamente, come ho visto dai segni sui corpi. Molti erano stati torturati prima. Non so nemmeno io come ho fatto a sopravvivere, con il terrore di essere ucciso se uscivo per cercare acqua o a raccogliere i cadaveri. Solo ora sto realizzando. E vorrei tanto dimenticare», dice padre Andriu. Poi: «L’unica cosa che mi rincuora è vedere la vita riprendere a scorrere. Per strada, c’è perfino qualche bimbo che gioca». È questa, più dei fiori rosa sui i castagni, l’albero simbolo di Kiev, la “primavera di Bucha”. «Con quanto coraggio, con quanta grinta il popolo ucraino sta facendo di questa stagione la sua rinascita», ha detto monsignor Gallagher. L’orrore di Bucha «è un monito per l’umanità. Ci fa comprendere il valore della pace. Questa è dono di Dio. Tutti, però abbiamo il dovere di contribuire a costruirla ».

Un lavoro lento e difficile ma possibile. Il fervore con cui tanti abitanti stanno riedificando le proprie case ne sembra un’inconsapevole metafora. «Non posso aspettare i soldi del governo. Anticipo io, poi si vedrà», spiega Ivan, il cui appartamento era poco distante dall’uscita di Irpin, nei pressi del “ponte della vita”, distrutto dall’esercito ucraino per sbarrare la strada ai nemici. Nel mezzo dei combattimenti, i civili arrangiavano passerelle di legno per attraversare il fiume e sfuggire ai russi. Ora tutta la palazzina è uno scheletro carbonizzato: è rimasto solo un addobbo di Natale. «La mia famiglia ed io siamo vivi. Questo è l’importante. Ricominceremo». Irina è l’ultima abitante di una Gostomel ancora fantasma. O la prima, dipende dai punti di vista. Due settimane dopo il ritiro di Mosca è tornata nella sua casa senza luce, acqua e con i vetri in frantumi insieme ai tre figli e i due cani. «Non ho altro posto dove stare. Il Signore mi aiuterà», dice mentre porta il quotidiano mazzo di fiori freschi alla statua dell’apostolo Andrea, situata all’incrocio della sua via. O, meglio, a quel che ne resta. Naso e occhi sono stati straziati dai proiettili. «Ma è ancora in piedi. Come noi ucraini».

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