mercoledì 14 maggio 2025
All'evento di presentazione del progetto di Avvenire «Figli di Haiti», le testimonianze di operatori della cooperazione, missionari, giornalisti. Tra i temi centrali, il debito
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Ad Haiti la situazione umanitaria è disastrosa, è vero. L’isola è martoriata tra la violenza delle gang armate, la miseria, le conseguenze dei fenomeni naturali estremi che l’hanno colpita (nel 2010, un terremoto uccise più di 200mila persone). Eppure, Haiti non è solo questo. Di chi è la responsabilità della situazione attuale haitiana? E perché Haiti ci riguarda tutti, da vicino?

Figli di Haiti”, la campagna lanciata a marzo da Avvenire con reportage, interviste, un docufilm e un podcast, sta provando a rispondere a queste domande. Lo ha fatto anche tramite una tavola rotonda che si è tenuta il 13 maggio, a Roma, alla Pontificia Commissione per l'America Latina.

Un tema centrale, quando si parla dell’isola caraibica, è il debito. Haiti conquistò l’indipendenza della Francia nel 1804 - diventando la prima repubblica nera della storia - ma dovette pagare per la libertà. Parigi gli impose un debito che ne minò lo sviluppo economico alle fondamenta. «Papa Francesco diceva che non si può parlare di pace senza giustizia sociale - ha sottolineato durante la tavola rotonda Emilce Cuda, segretaria della Pontificia Commissione per l’America Latina - La questione del debito e delle sue conseguenze deve essere presa molto seriamente. Sappiamo che quello imposto ad Haiti è legato alla sua storia. Ma tutti i Paesi dell’America Latina sono in questa situazione: ogni bambino che nasce ha già sulle spalle un debito impagabile. Dobbiamo pensare che siamo tutti coinvolti in questo».

Una consapevolezza che pesa durante l'anno di Giubileo, un tempo per definizione legato alla remissione dei peccati, come ha sottolineato anche padre Giulio Albanese, missionario e direttore Ufficio Cooperazione Missionaria tra le Chiese. «I debiti possono anche essere diminuiti, ma rimangono come delle vere e proprie metastasi - ha detto il missionario - C'è un intero sistema che acuisce le diseguaglianze, legato alla finanziarizzazione del debito, al fatto cioè che il pagamento degli interessi sia legato alle attività speculative in Borsa. È stato dimostrato che i Paesi del Sud Globale non saranno mai in grado di restituire ciò che è stato loro dato. E noi come Chiesa non possiamo pensare di stare alla finestra a guardare».

Le testimonianze di chi opera a Port-au-Prince, la capitale, aiutano a capire ciò che oggi è Haiti. «Negli ultimi mesi abbiamo dovuto prendere la terribile decisione di chiudere due strutture traumatologiche, è stato molto doloroso - ha raccontato Chiara Montaldo, infettivologa e coordinatrice dell’unità medica Msf - Ad Haiti la situazione peggiora sempre di più e noi vediamo i bisogni della gente crescere, ma dobbiamo bilanciare con la sicurezza dei nostri operatori. Dopo l’ultimo incidente, in cui un nostro convoglio è stato attaccato dalle gang, abbiamo dovuto chiudere. Rimane ad Haiti una nostra struttura, dove l'afflusso di pazienti è altissimo». Fiammetta Cappellini, responsabile Avsi per i Caraibi, che ad Haiti ha vissuto per il 19 anni, ha rimarcato che «alla popolazione haitiana vengono negati tutti i diritti, compreso quello di avere un pasto a tavola al giorno. E nonostante questo, raramente il Paese entra nelle cronache dei media. Le ragioni sono diverse: il peso economico e politico non è così significativo, le crisi nel mondo sono molte e spostano l’attenzione pubblica». Che cosa si può fare, per Haiti? «Ad esempio, sostenere l’educazione primaria dei bambini - ha risposto Cappellini - Nelle bidonville attorno alla capitale, dal 2018 le scuole hanno chiuso. Noi incontriamo bambini che non hanno mai passato un giorno a scuola. È fondamentale investire nei giovani, è un lavoro che la cooperazione internazionale e i missionari possono fare».

Haiti ha bisogno di essere raccontata in modo nuovo, dando voce e spazio a chi spesso rimane nell’ombra: i cittadini che si impegnano per denunciare le azioni delle gang o che non si arrendono alla violenza come unica strada di sopravvivenza. Un esempio sono i giornalisti della redazione AyboPOST, intervistati in "Figli di Haiti”, il docufilm della campagna di Avvenire (il trailer si può vedere qui). Il regista, Alessandro Galassi, ha messo in evidenza che «ad Haiti ci sono realtà di resistenza che chiedono di essere raccontate». Lo sa bene anche Stella Jean, stilista italo-haitiana: «Haiti è l’unico paese vincitore della storia condannato alla bancarotta eterna - ha spiegato durante l'incontro - Ma è proprio in questo momento che la speranza si deve fare scelta quotidiana, come fanno ad esempio le donne haitiane, colonne portanti della società».

La campagna “Figli di Haiti” continuerà fino alla fine del 2025. Come mai Avvenire ha deciso di investire tempo in questo progetto? Ha risposto il direttore, Marco Girardo: «Viviamo un'epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni e statisticamente ci dimentichiamo il 70% di ciò che leggiamo. Per questo abbiamo desiderato un progetto di lunga durata che ci permettesse di affrontare la complessità di un'isola che, ricordiamolo, è stato il secondo Paese al mondo a dichiarare la sua indipendenza dopo gli Stati Uniti oltre che la prima Repubblica nera della storia. C’è bisogno di uno sguardo non paternalista per raccontare la profondità e le potenzialità di questo Paese».

Un gesto per i Figli di Haiti: aiuta ad andare a scuola i bimbi della Maison des Anges, l’orfanotrofio sfollato
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