Ucraina, la corda tesa che può spezzarsi e fare precipitare tutto in un attimo
sabato 19 febbraio 2022

In gergo si chiama «tight rope», corda tesa. Ed è il momento peggiore del confronto, perché all’improvviso tutto può precipitare, lo spazio esiguo della trattativa restringersi fino a strozzarsi, il lampo della provocazione fatale, quello che fa divampare l’incendio e dà il via alla guerra, scoccare senza che si possa tornare indietro. Le parole rimbalzano da un capo all’altro, e sono parole di guerra, non di pace. Quelle di Stoltenberg («Se la Russia vuole meno Nato ai propri confini rischia di averne di più») come quelle di Putin («La situazione si sta deteriorando: l’Occidente troverà sicuramente una scusa per infliggere nuove sanzioni a Mosca senza aver risposto alle sue domande sulla sicurezza», quelle di Boris Johnson («L’invasione dell’Ucraina causerebbe la distruzione di uno Stato democratico») come quelle di Joe Biden («Ne sono certo, Putin ha deciso di attaccare nei prossimi giorni e ha come obbiettivo Kiev»).

E mentre lo zar assiste compiaciuto alle manovre militari congiunte con la Bielorussia, migliaia di abitanti russofoni del Donbass vengono fatti evacuare e trasferiti nell’oblast di Rostov «per evitare il genocidio in corso», tambureggia il Cremlino, cui si aggiunge lo scetticismo tedesco di fronte ai continui annunci di guerra americani («In situazioni di crisi – dice il ministro degli Esteri Annalena Baerbock – la cosa peggiore è presumere o cercare di indovinare cosa accadrà»).
Una guerra di parole, che manipolano i fatti fino a renderli verosimili: a Mosca e sui media allineati con il Cremlino il termine istreblenye (che sta per sterminio, genocidio) è di casa da settimane e agli occhi inorriditi dei russi le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk si sono gradualmente trasformate in una doppia Sarajevo di lingua e cultura russa assediata da quello che chiamano il «fascismo ucraino». Da otto anni in realtà quel confine è una ferita aperta, costata finora almeno quattordicimila vittime. Si spara e si risponde al fuoco da ambo le parti, un po’ a casaccio, un po’ senza reale motivo, interrotti da sistematici intervalli di quiete senza che mai ci sia davvero un cessate il fuoco.
Ma questa volta la corda tesa è prossima a spezzarsi. Basta un piccolo pretesto perché i centodieci gruppi tattici di intervento schierati da Mosca ricevano l’ordine di attacco. Un ordine che al momento non arriva, è sufficiente la guerra delle parole; ma attenzione, il caos che si sta creando attorno al Donbass giova principalmente a Vladimir Putin, preoccupato della rimonta di consensi di Biden e dall’inaspettata coesione che ha contagiato tutti i membri della Nato, e altrettanto impensierito dal proprio calo di popolarità. Il che lo spinge a rifornirsi nel mai sguarnito serbatoio di nazionalismo di cui la Russia è straricca quanto lo è di gas naturale. Un nazionalismo che si alimenta di allarmi, di colpi di mano, di minacce aperte agli avversari. In altre parole la forza, la Wille zur Macht, la volontà di potenza, che sono le due cose che i russi maggiormente rispettano e di cui Putin è campione perfetto. Di nuovo in parità nella hit parade dei proclami, Putin e Biden stanno logorando tuttavia quella corda già abbondantemente tesa sopra le loro teste. Ma a differenza dei leader mondiali i mercati questo lo hanno capito e reagiscono come di consueto: fabbricando panico, allargando gli spread, accendendo falò inflattivi, bruciando titoli e futures. Un ruolo, quello di cassandre inascoltate, identico a quello che si intravedeva nel 1914, quando all’indomani dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando tutto si poteva pensare tranne che si sarebbe scatenata una guerra mondiale. Anche allora la corda era tesa, e nessuno vi badava.

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