domenica 9 agosto 2009
La dittatura comunista di Enver Hoxha aveva voluto cancellare ogni traccia della religione, distruggendo dal 1967 oltre duemila edifici di culto o cambiandone la destinazione d'uso. Oggi si torna alle antiche devozioni.
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La Regina dell’Albania è torna­ta a casa dopo 48 anni. La portò con sé a Gallarate il gesuita pa­dre Fulvio Cordignano nel 1946 quando, con il regime comunista appena insediato, s’era subito capi­to che i preti, la Chiesa e le Madon­ne qui avrebbero avuto la vita diffi­cile. «Lascio il compito ai miei con­fratelli di riportarla in Albania quan­do sarà possibile», scrisse sotto la statuina di legno. Lo hanno fatto nel 1994, dopo circa mezzo secolo. A­desso è nella cappella del comples­so dei gesuiti di Scutari. La statuina policroma è un piccolo segno del risveglio religioso, fatto di entusiasmi, di sforzi e di speranze che l’Albania vive dopo il comuni­smo. Si è dovuto partire daccapo, perché anche per i cattolici è man­cata la generazione di mezzo. Dal 1992, nel seminario interdiocesano di Scutari sono entrati 213 giovani albanesi e 20 sono diventati preti. Altri quattro sono stati ordinati in I­talia. Don Artur Jaku è l’ultimo ad a­ver cominciato il suo ministero qualche settimana fa. In questi 18 anni della nuova Alba­nia, coloro che erano di tradizione cattolica hanno ripreso la pratica re­ligiosa; ci sono poi i teardhurit ( i ve­nuti): quei fedeli che non sono bat­tezzati e non ancora lo chiedono, ma vogliono essere indirizzati sulla via della fede. «I nuovi – dicono i padri – cercano due cose: l’approfondi­mento della dimensione spirituale e l’incoraggiamento di una Chiesa che è presente e attiva nella vita so­ciale albanese». Prima dell’avvento del regime di Hoxha, l’Albania religiosa poteva es­sere divisa in tre: il Nord tradizio­nalmente cattolico con il 10 per cen­to della popolazione; il Sud orto­dosso con il 20 per cento e il resto del Paese legato a un islamismo so­stanzialmente tollerante. Tutto però fu cancellato nel 1967. Nei primi me­si di quell’anno terribile, il regime, pensando di cancellare Dio, di­strusse 2.169 edifici di culto, oppu­re cambiò la loro destinazione. La geografia è mutata un poco con il ri­torno della democrazia. L’islam ha perduto parte dei vecchi fedeli a fa­vore della Chiesa cattolica e di quel­la ortodossa. Sicché è ancora difficile stimare il numero preciso delle per­sone che hanno riabbracciato una fede. I cattolici sono circa mezzo mi­lione, divisi in 5 diocesi e un’ammi­nistrazione apostolica, con oltre trenta congregazioni religiose ma­schili e almeno il doppio sono quel­le femminili. L’altra presenza storica, oltre ai ge­suiti, è quella dei francescani. Oggi sono trenta, e anche tra i frati è man­cato l’insegnamento e la guida di u­na generazione mediana. Soprav­vissuti al comunismo, oggi riman­gono soltanto padre Costantino Pi­stulli alla bella età di 91 anni, e pa­dre Ambrose Martini di 82. Padre Gazmend Tinaj è il provinciale del­l’Albania. Ordinato nel 2001, fa parte del secondo gruppo dei nuovi sa­cerdoti albanesi. « Noi – dice nella casa francescana di Scutari – con­fessiamo ore, ore e ore. Non siano un centro d’ascolto, si faccia atten­zione: gli albanesi chiedono un’at­tenzione sacramentale». È anche questo un segno del risveglio reli­gioso albanese. Il giovane frate usa una parola che non ne ha una equivalente in italia­no, kthjell, che sta ad indicare l’ac­qua diventata limpida quando i de­triti si sono sedimentati: « La fede – dice – è ancora un’acqua torbida che ha bisogno di schiarirsi. È necessa­rio alimentare e incoraggiare que­sta fede che resta un sentimento di fondo nell’animo degli albanesi, e per far questo serve un grande la­voro » . La rinascita non poteva sfuggire a un fine intellettuale come Fatos Lu­bonja, autore tra l’altro di Intervista sull’Albania (Il Ponte, Bologna). Lai­co, a lungo perseguitato dal regime, di recente ha dedicato il numero del­la sua rivista Perpjekja alla fede de­gli albanesi. « Adesso – dice – vivia­mo la fase in cui va ricostruito lo spi­rito, ed è ancora da vedere la capa­cità che avranno le Chiese di riu­scirci, perché oggi devono fare i con­ti con la difficoltà economica senti­ta ancora da tantissimi albanesi » . Lubonja avverte il pericolo che tan­ti possono diventare prede delle mil­le chiese ( o sedicenti tali) e sette che sono calate in Albania. Sulla necessità di una fede pura in­sistono diversi gruppi, come i Foco­lari, che operano in Albania da di­versi anni: « Cerchiamo di far capire, e non è semplice – dice Damiano Bertoldo –, che oltre ai beni ci sono anche i valori». Su questo piano o­pera il Movimento di Comunione e Liberazione, un’altra forte presenza in Albania. L’Avsi, diretta da Federi­co Berto, anima progetti socio edu­cativi a sostegno dei minori e per fa­vorire la formazione delle risorse u­mane. I quattro culti riconosciuti dal go­verno albanese (quello cristiano, co­ne le Chiese cattolica e ortodossa, l’islam e i Bektashiti) si sono impe­gnati negli ultimi anni in un proficuo sforzo di dialogo inter religioso. È invece molto avanti il percorso ecu­menico, e padre Ignazio Buffa, par­roco della chiesa dei gesuiti di Tira­na, spiega come questo confronto, che esiste già nella base dei fedeli, possa dare buoni frutti: « A livello i­stituzionale è stato possibile – dice – uno scambio filosofico e teologi­co tra le diverse facoltà di teologia; tra i giovani, poi, è stato avviato un cammino di preghiera insieme agli ortodossi e agli evangelici » . L’inten­to adesso è quello di individuare tre gruppi di giovani per attività comu­ni sotto l’aspetto religioso e sociale. È viva e rinata la Chiesa ortodossa che per ogni cosa utilizza il termine Ngjallia (Nascita), e così si chia­merà, infatti, anche la nuova catte­drale che sta sorgendo nel centro di Tirana. Da quando in Albania è sta­to possibile alle Chiese di esprimer­si ed operare, quella ortodossa ha formato già 147 sacerdoti. « Anche noi – dice Jorgo Papadopuli, giova­ne teologo e direttore di un proget­to che anima 52 case per giovani – abbiamo dovuto ricominciare dac­capo, anzi siamo ripartiti da meno zero. I sacerdoti, dopo tanti anni di repressione, avevano dimenticato perfino come celebrare i riti. Lo sfor­zo del primate Anastasios Yannou­latos è stato proprio quello di crea­re dal nulla un nuovo clero » . Nato più che rinato: ngjallia, appunto.
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