giovedì 17 gennaio 2019
Sono 22 convertiti, solo due già battezzati. Vivono di lavori in nero e spesso sono discriminati per la loro fede. Grazie a Focsiv ogni mese ricevono un buono spesa, carbone e sussidi scolastici
Profughi afghani cristiani durante un momento di preghiera (Foto Cristian Gennari)

Profughi afghani cristiani durante un momento di preghiera (Foto Cristian Gennari)

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«E qualcosa che decidi tu con amore, lo scegli da te. Hai la pace dentro di te, anche se fuori subisci continue pressioni», afferma con un sorriso Abdallah (il nome di fantasia). E' un profugo afghano che risiede ormai da tre anni un una città-satellite della Turchia che accolgono profughi. Afghano e cristiano, come gli altri 22 che si trovano tutte le domeniche in un appartamento in affitto: il più ampio della comunità. Lui è già stato battezzato, come un altro della piccola comunità, mentre gli altri 20 sono dei catecumeni.

«Ho iniziato a leggere in Vangelo in Afghanistan. Dei cristiani che vivevano la loro fede in segreto mi chiedevano di tradurre il Vangelo», spiega. Un lungo viaggio, anche esistenziale, per arrivare in Turchia dove come tutti i profughi - tranne quelli siriani - hanno una carta di riconoscimento, ma non una carta di identità. Ogni settimana anche Abdallah deve andare a firmare su un registro della polizia della città da cui non può uscire senza autorizzazione.

«Il Vangelo mi ha letteralmente conquistato anche se sono stato rinnegato da tutti. Anche da mia moglie», prosegue Abdallah. Da qui la decisione di fuggire, «perché in Afghanistan non potevo convertirmi». Prima in Danimarca, come clandestino, e poi il tentativo di raggiungere illegalmente il Canada «dove ho passato 40 giorni in prigione». Di nuovo in un campo profughi in Danimarca per sei mesi «dove potevo andare in Chiesa. In quel periodo ho letto tutto il Nuovo testamento». Poi il ritorno forzato in Afghanistan senza documenti regolari e il rischio di essere arrestato. Di nuovo la fuga, «in Pakistan e poi in Iran, dove non potevo essere registrato».

Per questo la Turchia è stata un'ancora di salvezza: «Qui ho trovato un aiuto dalla Chiesa». Infatti grazie a Celim (socio Focsiv) alla piccola comunità di cristiani afghani ogni mese vengono consegnati dei buoni spesa e un sostegno all'affitto (400 euro - questo intervento in collaborazione con Amo), è stato fornito carbone per il riscaldamento (complessivamente 1.300 euro), sono stati comprati scarpe e giacche a vento per 45 ragazzi afghani, cristiani e musulmani e 70 coperte (1.500 euro), a 6 bambini è stato fornito materiale scolastico (400 euro) e 4 studenti universitari hanno avuto borse di studio pari a 2.500 euro. Un grande sforzo di assistenza che grava sul Vicariato di Anatolia: solo 11 sacerdoti e 5 religiose, tutti stranieri, guidati dal vescovo Paolo Bizzeti in un territorio più grande dell'Italia: circa 50 milioni di abitanti con cirva 4mila cristiani terchi e 5mila profughi cristiani, quasi tutti iracheni.

Essere un profugo cristiano, è facile intuirlo, non è una passeggiata: il lavoro come lavapiatti è pagato 400 lire turche (65 euro) al mese. La metà di un cittadino locale e «quando vedono che il venerdì non vai in moschea spesso vieni discriminato se non costretto ad andartene». Non c'è nessuna chiesa in città e l'appartamento, in cima a una palazzina popolare, è il riferimento anche sociale per la piccola comunità.

Come ogni domenica si raccolgono raccolgono in cerchio, attorno a una semplice croce di legno, e leggono il Vangelo. Poi, recitano il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore...». E fanno una piccola raccolta di soldi per aiutare, anche fra le migliaia di afghani musulmani rifugiati in città, chi ha più bisogno di loro.

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