domenica 19 dicembre 2010
Continua la caccia al capo della banda dei trafficanti: sarebbe un beduino con legami in diversi Paesi. Si cercano riscontri, possibile il pagamento del riscatto.
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Potrebbe aprirsi uno spiraglio per i 250 eritrei prigionieri di u­na banda di predoni nel Sinai del Nord da quasi quattro settimane. E intanto comincia a disvelarsi la complessa rete che sta dietro al traf­fico di esseri umani nell’area. Ieri si è appreso dalla consueta te­lefonata con il sacerdote Mosè Zerai che quattro ostaggi sono stati rila­sciati tre giorni fa, dopo il pagamen­to di un riscatto. Si attendono però i loro riscontri sulla liberazione. Do­vevano dare infatti ai compagni di prigionia un segnale dell’arrivo ol­tre confine, in Israele. Conferma che avrebbe dato garanzie ai parenti, i quali stanno effettuando collette per reperire gli ottomila dollari richiesti.L’ufficio egiziano dell’Alto commis­sariato delle Nazioni unite per i rifu­giati sta effettuando in queste ore ri­cerche nei centri di detenzione per verificare se i quattro siano tra i 15 immigrati illegali etiopi ed eritrei ar­restati l’altro ieri dalle forze di sicu­rezza del Cairo mentre cercavano di passare il confine. Sta intanto prendendo corpo la rete internazionale di trafficanti che da oltre un anno rapisce e tiene prigio­nieri in condizioni brutali e disuma­ne i profughi. In un ampio dossier il gruppo Everyone riba­disce sul proprio sito che i profughi sono in­catenati mani e piedi, all’interno di alcuni container in un frutte­to alla periferia di Ra­fah, città divisa in due sulla frontiera del Si­nai, da anni sede di commerci anche di ar­mi ed esseri umani. Citando inchieste sui rapimenti nel Sinai di quotidiani britannici quali il «Daily Tele­graph » e l’autorevole testata israe­liana «Haaretz», il dossier riferisce che il capo dei predoni sarebbe un beduino di etnia Rashaida, Abu Kha­led. Avrebbe un aiutante etiope – ma potrebbe anche essere eritreo – la cui vera identità è stata indicata dagli stessi profughi: Fatawi Mahari. Nel settembre 2009 l’uomo è stato inda­gato dagli 007 israeliani con l’accu­sa di aver preso il denaro in Egitto dai famigliari di alcuni africani rapi­ti dai beduini nel Sinai del nord per poi versarlo ai trafficanti e consenti­re il passaggio degli ostaggi attraver­so i tunnel che collegano l’Egitto al­la Striscia di Gaza. Mahari, fermato dalla polizia a Gerusalemme, è sta­to rilasciato. Oggi potrebbe essersi spostato a Rafah anche grazie ai col­legamenti con Hamas.Sempre «Haaretz» riferisce dell’arresto a Ge­rusalemme di un eritreo, Nagasi Ha­bati e di un suo complice, Moham- mad Ibrahim, che aveva in casa 50 mila dollari. Entrambi denunciati da un etiope al quale avrebbero chiesto un riscatto per un ostaggio. Resta una domanda chiave: come possono le carovane di disperati di­rette in Israele sia dall’Eritrea che dal­la Libia finire nelle mani della stessa banda di beduini? Oltre alla presen­za di componenti tigrini nella ban­da, la risposta è la ramificazione de­gli stessi Rashaida, nomadi presen­ti, oltre che nel Sinai, in Libia, in Eri­trea e in Sudan, proprio vicino a Kas­sala dove si concentrano i profughi che fuggono dal Corno d’Africa. Al­cune tribù sono presenti anche in A­rabia Saudita. Hanno sempre prati­cato la tratta degli schiavi, alcuni clan si sarebbero riciclati nel lucroso traf­fico di persone grazie alla rete etnica sovra­nazionale che consen­te di presidiare antiche rotte desertiche, di nuovo battute da quando il Mediterra­neo è chiuso dai re­spingimenti in Libia.Un reportage ospitato sul sito eritreo Awa­te.com porta nuove tessere al mosaico cri­minale in cui sembra inserirsi la vicenda. In Eritrea i Rashaida so­no i passatori cui tutti si rivolgono per lasciare il paese. La loro presen­za su tutti i confini del Nord Africa a­vrebbe agevolato i passaggi clande­stini e consolidato una vera e pro­pria connection beduina che giun­ge fino a Israele e all’Arabia. Diffici­le on ipotizzare che non sia protetta da esponenti corrotti di governi e for­ze dell’ordine. In Arabia, nella città­oasi di Hail, finirebbero invece a fa­re le schiave le donne rapite cui nes­suno paga il riscatto, vendute per duemila dollari Il sospetto più forte è che ci sia un patto tra i Rashaida del Sinai le for­ze di sicurezza egiziane, che per te­nerli lontani dal nevralgico confine chiuderebbero un occhio sull’im­mondo traffico. I silenzi del governo del Cairo e le recenti, strane uccisio­ni di alcuni eritrei disarmati com­piuti dalle guardie di confine nel Si­nai non dissipano le ombre.
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