martedì 14 dicembre 2010
Resta appesa a un filo la sorte degli africani da un mese nella mani dei predoni in Egitto. Il governo egiziano: «Non abbiamo informazioni». Intanto non si hanno più notizie dei cento profughi spostati sabato da Rafah. Si mobilita l’Europarlamento. Giovedì voto su risoluzione urgente.
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Hanno scritto al governo egiziano, a quello italiano e ai parlamentari europei. Hanno informato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e le altre agenzie delle Nazioni Unite, Amnesty International e Human rigths watch. Lo stesso Benedetto XVI ha lanciato un appello per la liberazione dei profughi imprigionati da quasi un mese nel deserto del Sinai. Eppure, nulla si è mosso, duecento vite si stanno spegnendo nell’indifferenza più totale.«Perché nessuno interviene? Perché si sta perdendo tempo?»: l’ennesimo, disperato appello raccolto ieri dall’instancabile don Mosè Zerai, direttore dell’agenzia Habeshia: «L’immobilismo del governo egiziano è incredibile: le autorità sono informate da almeno una settimana eppure non succede nulla», commenta. Sabato pomeriggio due giovani diaconi della chiesa ortodossa erano stati uccisi, di fronte ai 150 profughi ancora detenuti a Rafah. Animavano il gruppo nella preghiera ed erano visti un po’ come i leader del gruppo. I trafficanti di Abu Khaled li hanno accusati di aver lanciato l’allarme e uccisi. «Almeno queste due morti si sarebbero potute evitare, se il governo egiziano si fosse mosso tempestivamente – commenta don Zerai –. E invece, stando a quello che riportano i media egiziani, le autorità locali continuano a sostenere di non avere informazioni».Si muove, intanto, anche il Parlamento europeo che giovedì voterà, su proposta del capo delegazione Pdl, Mario Mauro, una risoluzione urgente sulla questione. «Il Parlamento deve chiedere subito all’Ue di intensificare le pressioni sul governo egiziano per salvare queste vite – ha detto Mauro –. Non possiamo tollerare che una banda di trafficanti di esseri umani possa tenere in ostaggio, torturare e uccidere donne incinte e bambini». Mentre i due vicepresidenti italiani all’Europarlamento, Gianni Pittella (Pd) e Roberta Angelilli (Pdl) chiedono che «l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue intervenga immediatamente perché sia posto fine al calvario di queste persone indifese».Giorno dopo giorno, la situazione dei 150 profughi ancora detenuti a Rafah si fa sempre più drammatica. Mentre non si hanno notizie da giorni del gruppo, formato da un centinaio di uomini e donne, che venerdì scorso è stato trasferito e nascosto in una località ancora sconosciuta. E così, stanchi di rimbalzare contro un muro di gomma e di indifferenza, Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti del Gruppo EveryOne, si stanno preparando a partire per il Sinai. Già in settimana, potrebbero prendere un volo per il Cairo: «Abbiamo contattato l’ambasciatore italiano in Egitto, Claudio Pacifico, che ci ha garantito il massimo supporto – spiega Roberto Malini –. Vorremmo portare le autorità direttamente alla porta del covo dei trafficanti». Un’operazione che comporta un alto grado di rischio e che quindi può essere condotta solo con lo stretto supporto delle autorità governative del Cairo.La gravità della situazione viene ribadita, qualora ce ne fosse ancora bisogno, da un rapporto diffuso nel fine settimana dall’associazione umanitaria "Medici per i diritti umani-Israele" che gestisce una clinica all’interno dell’Università di Tel Aviv. Qui, tra gennaio e novembre del 2010, 1.303 donne di origine africana sono state sottoposte a trattamenti ginecologici, la maggior parte dei quali si sono resi necessari a causa delle violenze subite nel Sinai. Altre 80 hanno perso il bambino che portavano in grembo. Per 367 persone sono state necessarie cure ortopediche e altre 225 sono state sottoposte a sedute di fisioterapia per curare le lesioni provocate dalle violenze dei trafficanti.
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