giovedì 28 marzo 2024
Il 7 ottobre, il maggior dei 4 ragazzi di Elana Kaminka ha salvato oltre 100 persone prima di essere ucciso da Hamas. La mamma rifiuta di cedere all'odio
Nel soggiorno di casa di Elana c'è il pianoforte del figlio Yannai, coperto con le sue foto

Nel soggiorno di casa di Elana c'è il pianoforte del figlio Yannai, coperto con le sue foto

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«Non sono un’idealista. Sono una mamma. Imparare a vivere insieme è l’unico modo per salvare i miei altri figli dalla guerra. Ne ho già perso uno il 7 ottobre. Non voglio accada di nuovo», dice Elana Kaminka. La sua cittadina, Tzur Hadassah, 50mila abitanti a ovest di Gerusalemme, si è tinta di rosa nei giorni di Purim. La natura e il gruppo scout sembrano essersi messi d’accordo. Le acacie lungo i viali sono un tripudio di fucsia. I ragazzi hanno approfittato dei due giorni di vacanza per avvolgere lampioni, spartitraffico e cancelli con nastri del colore simbolo dell’associazione. La guerra, però, riesce a insinuarsi anche in questo inizio settimana di festa. All’entrata, appena oltre il check-point, spicca la foto di Elia Hacohen, rapito al festival di musica elettronica Nova 172 giorni fa e ancora nelle mani di Hamas. Proseguendo in linea retta ci si imbatte nella rete metallica che divide Israele dalla Cisgiordania. Il villaggio di Wadi Fukin è appena dietro, in area C, cioè sotto amministrazione militare dello Stato ebraico. C’è qualche centinaio di metri tra i condomini di Tzur Hadassah e le case basse dei 2mila dirimpettai palestinesi. Il conflitto, però, li ha trasformati, come mai prima, in una distanza incolmabile. Non per Elana Kaminka. «Quando vivi in un luogo devi costruire buoni rapporti con i vicini. E i residenti di Wadi Fukin sono miei vicini. Lo erano prima e lo sono dopo il 7 ottobre», afferma questa donna dai lineamenti delicati, nata in California 49 anni fa e residente a Israele da quando ne aveva 18. Il soggiorno della casa che condivide con il marito Eyal le somiglia. Come lei è luminoso e accogliente. Sul tavolo ci sono dolcetti e frutta per gli ospiti. E caffè che Elana invita a bere ricordo di Yannai, il figlio ventenne massacrato durante il servizio militare da una granata di Hamas mentre, con tre ufficiali, fermava i miliziani in modo che non entrassero nella base di Zikim, a 700 metri da Gaza. Dentro erano barricati 90 reclute e venti civili. Tutti si sono salvati, insieme ai residenti dei due kibbutz adiacenti alla base, grazie al sacrificio di Yannai e dei tre commilitoni, come i superstiti hanno testimoniato.

«Chissà cosa ha provato in quell’ora, prima di essere ucciso. Mio figlio detestava la violenza. Voleva sempre prendersi cura di tutti. E credo che avesse in mente proprio quello: salvare i ragazzi arruolati appena ad agosto e mandati in una zona tanto sensibile senza il necessario addestramento, salvare i pescatori rifugiati nell’installazione, la gente delle comunità intorno. Prima di morire è riuscito anche a mettere al riparo una comandante ferita», racconta la madre mentre il suo sguardo si posa sul pianoforte, ricoperto dalle foto di Yannai. «Amava suonare. Così esprimeva i suoi sentimenti, non con le parole. E amava il caffè. Per questo a quanti vogliono onorarlo dico: prendi un caffè forte e bevilo insieme a chi è diverso da te. Sorseggialo piano, prenditi il tempo per conoscerlo». Un suggerimento che Elana ha sperimentato in prima persona: quando, all’inizio degli anni Duemila si è trasferita a Tzur Hadassah, ha trascorso molti pomeriggi a fare amicizia con i palestinesi di Wadi Fukin, Battir e Husan. «Li aiutavo a vendere la loro frutta e verdura da noi, raccogliendo gli ordini tra i conoscenti. Quando avevano qualche problema con le autorità israeliane, poi, cercavo di dare loro una mano. Una volta mi hanno chiesto aiuto per un canale di scolo otturato o per un tubo danneggiato del sistema fognario. Piccole cose, quotidiane. Gliel’ho detto: non sono un’idealista».

Dal 2017, con l’organizzazione Tag Meir, Elana va a trovare i familiari delle vittime della violenza – israeliane e palestinesi –, per esprimere loro solidarietà. Molti – come Yacub Arabi, la cui moglie Aisha è stata uccisa dalla pietra scagliata da un colono cinque anni fa - le sono tornati in mente dopo il 7 ottobre. Tanti avrebbe voluto averli vicino nei giorni della veglia funebre. I palestinesi, però, non hanno potuto raggiungerla perché i loro permessi di accesso a Israele sono stati – e sono tuttora – congelati. «Hanno, però, trovato il modo di starmi vicino. Gli amici di Wadi Fukin mi hanno inviato dei datteri, come si usa nei funerali islamici. Li hanno portato dei datteri fino alla rete di separazione e li hanno consegnati a un’amica israeliana perché me li desse». Elana ha scritto loro – e a tutti i vicini palestinesi – una lettera «Sto soffrendo, sto soffrendo tanto ma nel mio cuore addolorato c’è sempre posto per voi. Non avete colpa per ciò che ha fatto Hamas. Spero solo che questa terribile situazione porti in qualche modo le nostre due nazioni a imparare finalmente a vivere insieme, nel rispetto reciproco, affinché nessun genitore, israeliano o palestinese, debba seppellire i figli». Per contribuire a costruire un futuro condiviso Elana ha deciso di unirsi ai Parents' circle che promuove pace attraverso il dolore comune di quanti, dell’una o dell’altra parte, hanno perso un proprio caro. «Per me i palestinesi non sono una categoria. Sono persone che conosco e mi conoscono. E non hanno niente a che vedere con Hamas. La mia angustia non mi impedisce di vedere la loro: la crisi in Cisgiordania è fortissima. I tanti che lavoravano a Israele hanno perso l’impiego. Per questo, ogni settimana, raccogliamo con gli amici dei viveri per Wadi Fukin. Dall’ingiustizia nasce la violenza e la guerra perpetra se stessa. Ci vogliono far credere che i muri ci daranno sicurezza. Il 7 ottobre ha dimostrato anche a quanti non volevano vederlo che non è così. Si vince solo insieme, non uno sull’altro. Perché sia gli israeliani sia i palestinesi dobbiamo vivere in questa terra. Non ci resta, dunque, che imparare a farlo. Ripeto, parlo come madre. Al termine di ognuna delle ultime guerre, mi dicevo: “Per fortuna i miei figli si sono salvati”. Stavolta non è stato così. Quante guerre e quanti figli uccisi ci vorranno perché abbiamo il coraggio di cambiare strada?».


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