venerdì 29 marzo 2024
«Quasi tutti i genitori sono senza lavoro e non riescono a pagarci la retta: tre di loro sono morti. la guerra è nel cuore degli insegnanti, un dolore che ci sforziamo di non far entrare a scuola»
Una suora dorotea con alcuni piccoli studenti di Effetà a Betlemme

Una suora dorotea con alcuni piccoli studenti di Effetà a Betlemme

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«Basterebbe un po’ di umiltà e un po’ di dialogo. Invece nessuno vuole scendere dallo sgabello...» sospira suor Carmela. L’anziana suora dorotea ha le lacrime agli occhi quando, dopo oltre cinque mesi di isolamento, saluta il primo gruppo di pellegrini giunti dall’Italia. Non è avvezza a parlare di politica, e nemmeno vuole farlo in questo momento: «Quanto odio c’è da entrambe le parti, hanno paura di incontrarsi». E anche una sola parola di troppo potrebbe essere equivocata. La suora maestra di Santa Dorotea, parlando con un dolcissimo accento veneto, preferisce attraversare i lunghi corridoi per andare al salone dove dei bambini sordi giocano con le loro educatrici: è il piccolo miracolo quotidiano di “Effetà”, la scuola per ragazzi audiolesi di Betlemme e dintorni. A causa dei matrimoni fra consanguinei la sordità è infatti la seconda causa di disabilità della regione: «Abbiamo 200 bambini in questo momento, un cristiano e tutti gli altri musulmani», spiega suor Carmela fra le corse dei piccoli incuriositi dagli ospiti. Sono i 12 piccoli del convitto che accoglie i più lontani. E forse, anche se le suore dorotee non lo dicono, i più disagiati. Una gioia spontanea: miracolo che la guerra ha iniziato a scalfire, e che la guerra potrebbe addirittura cancellare. Oltre alla piccola comunità di religiose nella scuola lavorano nove logopediste e le insegnanti laiche: «Seguiamo il metodo che sviluppa il linguaggio labiale: all’inizio è più faticoso, ma è quello che poi nel percorse educativo dà maggiori risultati».

Fu Paolo VI, dopo la prima visita di un Papa a Betlemme nel 1964, a chiedere di aprire una scuola per i piccoli sordi. Avviata nel 1971 adesso accoglie ragazzi dai 6 ai 18 anni, dando una formazione professionale o anche aprendo le porte all’università. Una vera avventura educativa e un percorso, come sa chi lavora nell’integrazione di deboli e disabili, che libera famiglie e società in un vero processo di integrazione di chi è più debole. Una sfida educativa che sin qui ha superato le tante crisi politiche ed economiche della Cisgiordania. E che ancora oggi prosegue grazie all’aiuto internazionale e a progetti di cooperazione. «Alle famiglie chiediamo l’equivalente di 750 dollari all’anno e 25 dollari al mese per pagare lo scuolabus a chi abita più lontano». Ma adesso «quasi tutti i genitori sono senza lavoro e non riescono a pagarci la retta», afferma suor Carmela. Nessuna incertezza, anche se la fatica e la tensione scava le sottili rughe attorno al sorriso dell’anziana religiosa: «Andremo avanti con l’aiuto della Provvidenza». La guerra, dopo lo stop forzato per il Covid gli anni passati, ha tenuto a casa di nuovi i ragazzi per alcuni giorni all’inizio della guerra a Gaza. E tre genitori sono morti dopo il 7 ottobre. Un dolore da combattere, il primo pericolo per chi vuole educare: «La guerra è adesso dentro il cuore degli insegnanti: un dolore, una preoccupazione che ci sforziamo di lasciare fuori dalla porta». Cosa rappresenti questa scuola per tutta la Cisgiordania è facile immaginarlo: questi ragazzi, se non scolarizzati, resterebbero a casa nelle loro famiglie di origine accumulando emarginazione e abbandono con un sovraccarico insostenibile per i genitori già nell’ordinario provate da precarietà economica. Quasi sei mesi di guerra e il blocco dei pellegrinaggi, di cui vive l’80% della popolazione a Betlemme; il blocco dei permessi di ingresso in Israele; i continui check-point sono il prezzo quotidiano alla guerra che la popolazione palestinese della Cisgiordania subisce in silenzio. «Ogni mese dobbiamo trovare 45mila dollari per pagare il personale. Sinora sono riuscita a pagare, ma in futuro non sappiamo...», prosegue la sorella.

La guerra deve restare fuori dalla porta perché le bocche dei piccoli continuino ad aprirsi alla vita. Il video con le storie di alcuni ragazzi passati da lì è ancora negli occhi dei visitatori: «Posso accedere all’università, a frequentare un corso da stilista. Qui ha ricevuto una educazione completa» afferma in arabo una ragazza velata con la traduzione in inglese che scorre sul grande schermo della sala riunioni. Un laboratorio, pure di dialogo tra cristiani e musulmani, che potrebbe doversi fermare irrimediabilmente se la guerra continuerà inesorabile. Suor Carmela trattiene le lacrime e chiude la porta: la guerra, finché ci riuscirà, resterà fuori dalla porta.

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