giovedì 30 novembre 2023
La scelta di Dubai, una petro-potenza, come Paese ospite per la conferenza ha suscitato forti critiche dato che uno dei nodi cruciali sarà «l’eliminazione graduale» delle fonti fossili
C’è un deserto al posto del lago salato di Poopo, vicino al villaggio di Punaca Tinta Maria, sull’altipiano boliviano

C’è un deserto al posto del lago salato di Poopo, vicino al villaggio di Punaca Tinta Maria, sull’altipiano boliviano - Ansa

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Il 2023 non è ancora terminato e si è già aggiudicato il titolo di anno più caldo di sempre: per 86 giorni, le temperature hanno oltrepassato gli 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale. Un «ciclo mortale» che ora i leader devono «interrompere», ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres alla vigilia della 28esima Conferenza della parti della Convenzione Onu sul clima (Cop28). Da oggi, i 197 Stati sottoscrittori più l’Unione Europea (Ue) si riuniranno a Dubai e, per le prossime due settimane, negozieranno la road map con cui cercare di contenere il riscaldamento globale. Nessuno sa se lo sforzo porterà a decisioni stringenti, come chiesto, anzi supplicato, da scienziati ed esperti.

Sulla carta, i motivi di scetticismo sono forti. A cominciare dalla complessa congiuntura internazionale, segnata dal moltiplicarsi dei conflitti, dall’Ucraina al Medio Oriente. La diplomazia climatica dovrà cimentarsi in ardite acrobazie per aggirare i blocchi vecchi e nuovi in cui il mondo si va frammentando.

La sede stessa delle trattative è in sé una sfida. Gli Emirati sono una delle dieci petro-potenze. Non sorprende, dunque, che attivisti e organizzazioni internazionali abbiano stigmatizzato la sua scelta come Paese ospite. Come pure è stata aspramente criticata la designazione come guida dei lavori di Sultan al-Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera statale Adnoc. Le proteste sono cresciute negli ultimi giorni quando, da una serie di documenti diffusi da Bbc e dal Guardian, l’impresa emiratina è risultata avere il maggior piano mondiale di espansione della produzione. E di voler utilizzare la cornice della Cop per chiudere nuovi contratti con quindici nazioni.

I suoi impianti, inoltre, utilizzerebbero quasi ogni giorno il “flaring”, tecnica inquinante a cui il Paese si era impegnata a rinunciare 20 anni fa. Gli Emirati hanno respinto le accuse ma, ieri, a poche ore dall’inizio dei lavori, Jaber ha acconsentito a ritirarsi da Adnoc su richiesta dell’Onu.

Dopo il “vertice delle grandi speranze” di Glasgow e il summit “africano” di Sharm el-Sheikh, quella di Dubai si prospetta agli occhi degli analisti come «la Cop più difficile». Eppure «la più necessaria» poiché la finestra di opportunità per invertire la rotta è sul punto di chiudersi. Come ha certificato anche l’ultimo rapporto del Programma Onu per l’ambiente, le emissioni sono tornate ai livelli pre-Covid con 57,4 millliardi di tonnellate di CO2.

A otto anni dagli accordi di Parigi, il vertice ruoterà intorno all’esame di quanto fatto finora per raggiungere gli obiettivi fissati. A Dubai si svolgerà la parte conclusiva del primo “bilancio globale” – il cosiddetto “global stocktake” – previsto dall’intesa. I risultati preliminari, presentati lo scorso 8 settembre, non sono positivi: con le politiche attuali, la temperatura aumenterà tra i 2,4 e i 2,8 gradi alla fine del secolo, ben oltre la soglia di equilibrio di 1,5 gradi.

Certo, dei progressi ci sono stati: nel 2010 l’incremento previsto era di almeno 3,7 gradi. Ma i passi avanti sono troppo lenti. La speranza è che questa consapevolezza si traduca in tagli più ambiziosi per il 2025, quando i Paesi dovranno presentare i nuovi obiettivi per il prossimo decennio.

I criteri, però, dovranno essere fissati alla Cop28. A partire dal nodo cruciale delle fonti fossili dal cui utilizzo dipendono i due terzi delle emissioni. L’Intergovernamental panel on climate change (Ipcc) e l’Agenzia internazionale per l’energia sono state categoriche: non c’è più posto per petrolio, metano e carbone. Ottanta nazioni sono favorevoli a mettere nero su bianco la loro «eliminazione graduale».

Proprio come a Sharm el-Sheikh, i petro-Stati sono decisi a impedirglielo, con il sostegno degli emergenti Russia, India e Cina. A sparigliare le carte potrebbe, però, essere l’inedita sintonia tra Washington e Pechino. Due settimane fa, i presidenti Joe Biden e Xi Jingping hanno appena firmato a San Francisco una dichiarazione in cui si impegnano a cooperare e a sostenere gli sforzi per triplicare le rinnovabili entro il 2030, una delle proposte dell’Onu per la Cop28.

Nessuno dei due sarà, però, tra i 70mila partecipanti di Dubai: a sostituirli saranno il vicepremier Ding Xuexiang e il negoziatore Xie Zhenhua per la Cina, e l’inviato speciale John Kerry e il segretario di Stato Antony Blinken per gli Usa. Assente – ma solo per ragioni di salute sopraggiunte all’ultimo – papa Francesco, per il quale si studia comunque una modalità di partecipazione. La sua voce – la prima di un Pontefice a una Cop – potrebbe dare una forte spinta ai negoziati.

Oltre che sul contenimento alle emissioni, questi ultimi dovranno anche dare forma al fondo per compensare le perdite e i danni subiti dai Paesi più vulnerabili la cui costituzione è stata decisa, dopo un estenuante braccio di ferro, alla precedente Cop. Stavolta si dovranno discutere le proposte del comitato incaricato che ne prevedono l’allocazione, fino al 2027, presso la Banca mondiale.

L’idea non piace al Sud globale che preferirebbe tenerlo in orbita Onu. Altro terreno di frizione riguarda l’accesso ai fondi, ancora in sospeso: se solo i più poveri – come vorrebbero Usa e Ue – o anche altri. Dopo l’intransigenza mostrata a Sharm el-Sheikh, però, Bruxelles sembra avere mutato atteggiamento con l’annuncio a sorpresa, il 13 novembre, dell’intenzione di voler dare un «contributo sostanziale» al fondo nascente. A proposito di promesse, sono stati raggiunti i 100 miliardi di aiuti per i Paesi poveri. Ci sono voluti tre anni d’attesa. Giusto in tempo prima di fissare il nuovo livello di contributo a Dubai.




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