giovedì 2 aprile 2009
De Pretis torna in libertà dopo 18 mesi di incubo giudiziario. Era detenuto con l’accusa pretestuosa di possesso di «materiale pornografico». Nonostante le prove a suo favore, le imputazioni sono state cambiate più volte dai magistrati africani.
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«Non mi sembra vero che sia finita». Si è dissolto in un’udienza di pochi mi­nuti a Gibuti l’incubo giudiziario del mis­sionario trentino don Sandro De Pretis, da un anno e mezzo privato della sua li­bertà con accuse generiche e più volte ri­trattate fino a quella infamante di «cor­ruzione di minori». Ha dovuto attendere 114 giorni in car­cere, altri 13 mesi in libertà vigilata, pri­ma che il giudice si esprimesse con una sentenza ambigua e confusa come le stesse ipotesi di reato: nella condanna di giovedì scorso si parla infatti di «posses­so di materiale pornografico», ma la giu­risdizione locale non prevede una con­danna per questa fattispecie. Ed anche la misura detentiva inflitta a don Sandro – 3 mesi e 4 giorni con la condizionale, più altri cinque mesi – appare una giu­stificazione a posteriori del periodo che il sacerdote ha trascorso isolato dal 28 ottobre 2007 in una cella di 4 metri per 7 nel carcere di Gadobe: 3 mesi e 24 gior­ni, esattamente lo stesso periodo, con u­na sfasatura dovuta forse ad un errore. Ma sono molti i conti a non tornare in u­na vicenda umana che – anche dopo un’interpellanza al governo italiano – as­sunse a fine 2008 le dimensioni di un emblematico caso di giustizia interna­zionale, tanto che il governo Prodi ha so­speso il previsto finanziamento all’o­spedale di Gibuti. Un processo intermi­nabile che subito era stato definito «sol­tanto politico» dal vescovo di Gibuti, Giorgio Bertin, convintosi ben presto, dopo una scrupolosa indagine, dell’in­nocenza del sacerdote trentino incardi­nato nella diocesi dal 1993 per essere «a­fricano fra gli africani». Le accuse rivol­tate contro il missionario – 53 anni, vo­cazione adulta sbocciata dopo un pe­riodo di volontariato internazionale – ri­sultavano basate «in modo pretestuoso» su alcune immagini di bambini nudi con bubboni sul braccio, che don Sandro a­veva archiviato in computer per sotto­porle ai medici in vista di una diagnosi. È stato «incastrato in una trappola», per usare una sua espressione, che va collo­cata nell’ambito dei rapporti ancora te­si fra Gibuti e il governo francese, fino al 1957 potenza coloniale nello staterello del Corno d’Africa a stragrande maggio­ranza islamica (i cattolici sono l’1 per cento); don Sandro era infatti l’unico oc­cidentale presente sul posto nel 1995 quando fu trovato ucciso il giudice fran­cese Bernand Borrell: un suicidio, si dis­se, mentre la moglie ed altri testimoni ri­tengono trattarsi di omicidio perché e­gli stava indagando su loschi traffici. Più volte la diplomazia italiana – solle­citata anche dal vescovo Bertin – si è ri­volta al presidente Sarkozy e al presi­dente giubutino Ismair Omar Guelleh per la liberazione di don Sandro; alla pressione della diplomazia vaticana si e­ra aggiunta la mobilitazione della stam­pa cattolica che nella primavera dello scorso anno ha raccolto oltre 5 mila fir­me di solidarietà sul sito del settimana­le diocesano Vita Trentina. «Ringrazio tutti quanti mi sono stati vi­cini anche con la preghiera» è il mes­saggio di don Sandro, rimasto fedele al­la sua accettazione delle «catene» in sti­le «paolino» ma sempre deciso nell’af­fermare l’assoluta innocenza. In questi giorni non ha voluto commentare la sen­tenza, ha inviato solo questa mail agli a­mici più stretti: «Finalmente la mia sto­ria, dopo un anno e mezzo, è terminata, pur se con una condanna – scontata in un senso e già scontata nell’altro senso – sulla base di un’accusa che era stata ancora cambiata due settimane fa, per la quinta o sesta volta. Adesso aspetto che le ultime carte siano fatte, e dopo dovrei poter ricuperare il passaporto e partire. Continuate a pregare per tutti noi qui a Gibuti».
LA VICENDAIn carcere di isolamento. Poi la mobilitazione popolareL’odissea giudiziaria di don De Pretis comincia nell’ottobre 2007 quando a Gibuti si scatena una campagna di stampa antifrancese che colpisce anche la Chiesa, accusata di creare «una rete per la pedofilia»: don Sandro è rinchiuso nel carcere di Gadobe, con accuse molto generiche. «Non dimenticate che io sono in prigione» scrive il 13 dicembre al settimanale “Vita Trentina” e si desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale: il «caso» va collocato nel conflitto fra Gibuti e governo francese. Spuntano allora presunti testimoni che portano a modificare l’accusa in «incitamento alla depravazione e alla corruzione di minori». Isolato dagli altri detenuti, il prete trentino si affida al suo vescovo, monsignor Giorgio Bertin, per il quale «sono accuse palesemente infondate», e al lavorio della diplomazia vaticana e italiana. Il 7 gennaio 2008, dopo la visita in carcere del suo delegato don Ivan Maffeis, l’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan, chiede l’intervento dell’allora premier Romano Prodi e del presidente francese Sarkozy. Una settimana dopo il vescovo di Gibuti parla della sofferenza di don Sandro al Papa, nella visita ad limina. Dopo la mobilitazione della stampa cattolica in Italia (oltre 5mila firme vengono raccolte on line) e la richiesta dei suoi familiari al giudice gibutino, don Sandro ottiene di uscire dal carcere «per motivi di salute» il 21 febbraio 2008: deve però rimanere in libertà vigilata in una casa di religiose, senza «incontrare giovani e possibili testimoni». Del caso si parla anche in agosto al vertice Fao, ma l’attesa snervante si protrae per questi 13 mesi, fino all’udienza di giovedì scorso.
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