giovedì 22 febbraio 2024
La commemorazione di oggi si svolgerà nel segno della paura di un’ennesima rappresaglia, dopo che i missili americani forniti all’Ucraina hanno centrato l’adunata di un battaglione di Mosca
Il tributo di Maidan alle vittime degli scontro del febbraio 2014

Il tributo di Maidan alle vittime degli scontro del febbraio 2014 - Ansa

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Ogni nastro un nome, ogni nome un lutto. E i piccoli drappi gialloblu aumentano giorno per giorno, a perdita d’occhio sull’aiuola ghiacciata a corona di Maidan. E Maidan vuol dire piazza, ma dal 2013 significa «dignità», che per i ragazzi della rivoluzione «Euromaidan», più di tutto vuol dire «libertà» e il sogno dell’Europa. L’esatto contrario dei piani che Mosca aveva per Kiev.

C’è chi giura che non basterebbe l’intera Maidan per mettere i nastrini uno di fianco all’altro, per ogni morto in battaglia. Le sirene tornano a suonare in mattinata, nella Kiev che ricorda quel che accadde e come la guerra del 2022 non è stata dichiarata due anni fa, ma al culmine della “Rivoluzione della dignità”. L’Euromaidan che si concluse con il massacro di 80 civili e 17 poliziotti, al culmine degli scontri, finiti con la fuga del presidente filorusso Janukovich, nella notte tra il 21 e il 22 febbraio 2014. E Putin che prometteva come l’offesa sarebbe stata sanata prendendosi la Crimea e da lì il resto, a cominciare dal Donbass.

Oggi tutti si aspettano che da un momento all’altro piombi l’ennesima rappresaglia, dopo che ieri i missili americani forniti a Kiev hanno centrato l’adunata di un battaglione moscovita proprio nel Donbass, uccidendone almeno 70 e ferendone cinque volte di più. Tra loro anche una vittima “eccellente”: il generale Oleg Moiseev. Festeggiavano la riconquista di Avdiivka, dove decine di soldati di Kiev sono stati fatti prigionieri e dall’una e dall’altra parte sono centinaia quelli fatti a pezzi dall’artiglieria ravvicinata, tra boschi e rovine. Alcuni, oramai disarmati, sono stati finiti dalle fucilate del nemico, mentre le retrovie venivano sguarnite. Non è stata una sconfitta come le altre.

Perché le battaglie si perdono, ma le disfatte si pagano. «Non ci sarà alcuna evacuazione. Lascia i feriti», hanno ordinato a Oleh, il soldato di Kharkiv che la capitolazione l’ha voluta raccontare. A costo di finire in un carcere militare. È stato tra gli ultimi a fuggire dallo Zenit, una posizione chiave che dal 2014 ha sempre retto alle spallate dei filorussi e dei russi da Sud. A quelli con le gambe ancora buone per correre è stato ordinato di filarsela alla svelta. Perché la prima linea ha bisogno di loro, da qualche altra parte. Impossibile trasportare i feriti per i due chilometri che avrebbero potuto metterli in sicurezza. «Siamo stati semplicemente lasciati lì», racconta Oleh lamentandosi dei comandanti.

Mentre la guerra fiacca le forze e il morale, sembrano lontani gli entusiasmi di dieci anni fa. Di quanto in Ucraina ogni città aveva la sua Maidan. Perfino nel Donbass, dove la nostalgia pro-russa in alcune aree si fa sentire anche adesso che i carri armati sferragliano e in certe giornate non si sa se quello versato è sangue per ordine di Mosca o per mano ucraina. Il bollettino di guerra è fatto anche di supposizioni. A Mosca è atterrato un cargo iraniano. Di solito trasporta droni nuovi di zecca, segno che le giornate fino al 25, quando nella capitale ucraina arriveranno leader europei, parlamentari e sostenitori della resistenza contro Mosca, terranno impegnata la contraerea. Mentre il leader bielorusso Aleksandr Lukashenko torna ad agitare lo spettro di una Terza guerra mondiale, ma non per colpa del Cremlino, lascia intendere assicurando che nessuno ha intenzione di attaccare i Paesi Baltici, freschi di adesione alla Nato.

Musei, manifestazioni, processioni, ricordano in queste ore quando nel novembre 2013 l’Ucraina era pronta a firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea, in vista del percorso di adesione all’Ue. Ma il 21 novembre il governo di Kiev annunciò che non se ne sarebbe fatto più nulla. Putin voleva sedurre gli ex sudditi dell’Unione sovietica con l’abolizione delle barriere doganali, il gas a buon prezzo e un prestito di 15 miliardi di dollari.

Così in poche ore a Kiev migliaia di persone scesero in piazza. Era la “Rivoluzione della dignità”. Fino al 22 febbraio 2014, quando il presidente filorusso Janukovich se la filò in Russia poco dopo la strage di Maidan. La guerra è nata quel giorno, anche se ci sono voluti dieci anni perché deflagrasse drammaticamente trascinando l’Ucraina e il mondo perfino nell’incubo nucleare.



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