sabato 13 novembre 2010
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«La violenza era già la normalità quotidiana. Ma questa volta è stato così diverso. Peggio dei peggiori incubi». A dirlo è Marco, seduto accanto a Matteo. E al loro cospetto, ci si chiede subito: ma come fanno, dopo tutto quello che hanno appena vissuto, a mostrarsi così composti? Come fanno a sorridere persino con dolcezza, sia pure per un istante? La serenità di Marco e Matteo sembra quella di giovani europei semplicemente bravi e religiosi, ben educati e con una vita che certi altri definirebbero persino “ordinaria”. Per questo conviene forse impiegare nomi fittizi (di sicurezza) italiani, nonostante Marco e Matteo siano invece appena arrivati a Creteil, vicino a Parigi, dopo aver visto l’inferno nella loro Baghdad. Marco e Matteo sognavano forse anche loro un giorno di vedere la Tour Eiffel. Ma invece, nei giorni scorsi, il loro viaggio è stato organizzato dalle autorità francesi per ben altro scopo, dato che i due hanno accompagnato in Europa chi nella loro famiglia è rimasto gravemente ferito durante l’eccidio dei cristiani a Baghdad di domenica 31 ottobre. In tutto il governo francese ha accolto 36 persone rimaste ferite e 19 loro familiari. Quando si conosce questo passato, che in realtà nel loro caso è un presente, la serenità negli occhi di Marco e Matteo mette i brividi. Perché, già sul filo delle prime parole incisive, questa serenità la dice paradossalmente troppo lunga su ciò che è stata per loro Baghdad negli ultimi anni. Quella Baghdad dove sono entrambi nati e cresciuti da cristiani. Che hanno amato entrambi. E di cui parlano già quasi al passato, quando ammettono che sì, forse accetteranno la proposta francese d’asilo. A condizione, però, che tutti gli altri familiari ancora in Iraq possano seguire la loro strada. «Se possono venire in Francia, tutto andrà bene. Altrimenti, non posso vivere in paradiso e lasciarli morire nell’inferno. Se non riuscirò a farli venire in Europa, rientrerò. Ma in ogni caso, lasceremo Baghdad, forse per andare nel Nord o in un Paese vicino come il Libano», dice lentamente Matteo, più adulto di Marco. Li incontriamo nel centro di accoglienza per rifugiati scelto per loro, nell’urgenza, dalle autorità d’Oltralpe. Sono ben vestiti, ma la loro è soprattutto un’eleganza dei gesti. Difesa sempre certamente, nonostante tutto, in nome della fierezza di essere cristiani in una terra così vicina ai luoghi di Cristo.Prima di rievocare «l’incidente», Marco tiene innanzitutto a descrivere quanto sta vedendo di buono in queste ore: «All’ospedale, i dottori sono così solerti e professionali». I giudizi dei due sui massacratori entrati in azione paiono atti chirurgici. Parole taglienti come bisturi, ma anche lente, pulite e pronunciate a mezzavoce. Come per non concedere a chi negli ultimi anni «ogni giorno uccide, umilia o insulta i cristiani di Baghdad» (Matteo) neppure la minima sbavatura. Eppure, i due hanno appena visto corpi dilaniati dei loro cari. Ma no. Neppure una goccia di odio contro chi ha martirizzato. Una calma bianca e asciutta come la sciarpa di Marco, mentre guarda per un attimo dalla finestra i nuvoloni in arrivo sopra la terra d’esilio. Una calma per questo di gran lunga più dura di qualsiasi frase aggressiva. Nonostante l’ecatombe, Matteo continua a distinguere fra chi vive a Baghdad: «C’è ancora gente perbene che rispetta i cristiani, ma quelli che si giudicano molto religiosi ci considerano solo come degli infedeli da abbattere».Per Marco, l’assalto di domenica equivale alla certezza che nella capitale irachena non esistono più luoghi sicuri per i cristiani: «Ti dici ogni giorno: se resto, forse prima o poi sarò ammazzato. Molti di noi non riescono più a dormire. I giovani, soprattutto i fidanzati che vogliono sposarsi, sognano ancora una vita diversa. Ma dove?».Attento all’uso delle parole, o almeno di certe parole, Matteo osserva: «Si può essere assaltati anche in casa, se un vicino ti denuncia come cristiano. La vita di un cristiano in Iraq equivale al prezzo di una pallottola. Mi domando spesso se la parola vita umana ha ancora un senso». In mezzo alle riflessioni più amare, la parola «futuro» sopravvive: «Altri cristiani in Medio Oriente e altrove vogliono un futuro con la nostra permanenza in Iraq. Ma per il momento, restare significa morire», dice Marco. E fra le preoccupazioni di Matteo, persino il destino di tutti gli iracheni resta in qualche modo a galla, pur come una zattera dopo la burrasca: «Non si può restare per il futuro di un Paese dove si è massacrati. Ma un futuro in Iraq senza i cristiani sarà di certo un pessimo futuro».
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