domenica 21 settembre 2014
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Due elementi, apparentemente slegati fra loro, potrebbero essere la chiave per ipotizzare quale sarà il futuro dell’Ucraina e delle sue terre contese. Il primo è il distacco elegante, nonostante le assicurazioni, con cui Washington ha accolto il presidente Poroshenko, regalandogli una mancia di 63 milioni di dollari (contro il miliardo stanziato in aiuti militari alla Georgia nel 2008), ma sostanzialmente evitando di compromettere la Casa Bianca e la Nato nel conflitto fra Kiev e i separatisti filorussi del Donbass.Il secondo elemento è il memorandum siglato sabato notte a Minsk fra l’ex presidente Kuchma, i delegati russi, i rappresentanti delle repubbliche autoproclamate di Lugansk e Donetsk e gli osservatori dell’Ocse, che punta a un cessate il fuoco sostanziale e duraturo e demarca con una no-fly zone di 30 chilometri interdetta all’artiglieria pesante quella che con tutta probabilità rappresenterà in futuro la linea di confine fra il Donbass e l’Ucraina, un po’ come la zona cuscinetto che c’è fra Israele e il Libano o – per chi ha memoria lunga – il 38º parallelo tra le due Coree.  Si potrebbe aggiungere un terzo elemento, il sorvolo dei caccia russi nella cosiddetta “Air defence identification zone” sopra l’Alaska, del tutto casualmente in concomitanza con la visita di Poroshenko nel continente americano.  In fondo nessuno o quasi si illude: la Crimea rimarrà in mano russa, le repubbliche ribelli ci finiranno molto presto. È il pegno per l’orgoglio ferito della Russia di Putin, quello che l’antropologo Sergeij Ushakin (che ora insegna a Princeton) descrisse nel suo The Patriotism of Despair, il patriottismo che nasce dalla disperazione della caduta dell’impero sovietico, da quella cioè che Putin stesso ha definito la più grande catastrofe geopolitica della storia recente. Una catastrofe che ha generato il ritorno di un nazionalismo in fondo mai sopito e molto ben assecondato dalla propaganda dei mass media controllati dal governo di Mosca. Un nazionalismo che ha finito per specchiarsi nel suo doppio, il nazionalismo ucraino, che di fatto non raggranella che poche percentuali di voto alle elezioni con quei due movimenti, Pravi Sektor e Svoboda, che lumeggiano eredità nazionalsocialiste e fanno uso di simboli assai poco equivocabili, ma che consente ai russi di dipingere l’Ucraina come un covo di nazisti, gli stessi che la Grande Guerra patriottica ha sconfitto innalzando la bandiera rossa sul Reichstag a Berlino. È una guerra di parole e di immagini, ma che culla e alimenta odii e rivalità antiche come le cupole d’oro della cattedrale di Santa Sofia a Kiev. Non solo, secondo l’analista di Kiev Oleksandr Ivanov «l’Ucraina vive silenziosamente nel panico. Un panico che non si traduce in manifestazioni di piazza, urla, pianti: un panico interiore che però paralizza». Il sociologo sudafricano Stanely Cohen lo ha definito «moral panic», un panico morale che i mass media amplificano giocando sulla paura collettiva, sulla sensazione di pericolo, di rischio permanente. Lo stesso panico che impedisce a oltre il 60% degli ucraini di credere seriamente alla pace.
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