giovedì 30 novembre 2023
A 32 anni dalla prima richiesta, il fondo approvato a Sharm el-Sheikh è diventato operativo e ha ricevuto i primi contributi. Ma la cifra stanziata è simbolica
Un cartello durante una protesta per il clima a Londra chiede: sto alle perforazioni, alle uccisioni, ai rinvii, iniziate a pagare

Un cartello durante una protesta per il clima a Londra chiede: sto alle perforazioni, alle uccisioni, ai rinvii, iniziate a pagare - Reuters

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L’applauso è esploso fragoroso e spontaneo nel centro congressi di Dubai. I Paesi poveri attendevano questa decisione da 32 anni quando, per la prima volta, nelle riunioni preparatorie del vertice della Terra di Rio, l’Alleanza delle piccole isole chiese un fondo per aiutare le nazioni più vulnerabili a far fronte ai danni inferti dal riscaldamento globale. Un’istanza puntualmente respinta al mittente nei decenni successivi per l’intransigenza del Nord del mondo. Esasperato, alla fine, l’anno scorso, il Sud globale ha fatto fronte comune e ingaggiato un’epica battaglia per ottenere il via libera alla sua creazione. Per questo, c’è stato un momento di incredulità ieri quando, all’apertura della 28esima Conferenza sul clima (Cop28), i 197 Paesi partecipanti più l’Unione Europea hanno approvato in un batter d’occhio l’immediata entrata in funzione del fondo. «Un buon auspicio» per l’avvio dei negoziati che, nelle prossime due settimane, dovranno indicare la rotta per arginare la crisi climatica, ha sottolineato il presidente del summit, il sultano Ahmed al-Jaber. E ha aggiunto: «Abbiamo già fatto la storia». In effetti, è la prima volta che una deliberazione di tale importanza viene presa all’apertura dei lavori. Un risultato abilmente costruito dalla presidenza emiratina, nell’occhio del ciclone per i legami con l’industria petrolifera: Jaber è amministratore delegato della compagnia di Stato Adnoc e le dimissioni annunciate due giorni fa, sull’onda di una serie di scandali, si sono rivelate un falso.
Un inizio positivo era vitale per recuperare credibilità. Nella quinta ed ultima riunione del comitato incaricato di elaborare la proposta, il 5 novembre, il compromesso era di fatto già stato raggiunto. Restava solo da ufficializzarlo. E così è stato. Come previsto, dunque, il fondo sarà ospitato dalla Banca mondiale e sarà alimentato da versamenti volontari. Aggettivo quest’ultimo fondamentale per incassare il sì dei Paesi di vecchia industrializzazione – gli inquinatori storici –, ai quali viene rivolta espressamente la richiesta di contribuire. In realtà, la formulazione del testo è sufficientemente ampia da consentire la partecipazione anche agli emergenti – vedi la Cina – le cui emissioni sono in crescita negli ultimi anni. Ma è anche aperto ad altri soggetti, come le grandi società del fossile alle quali il segretario generale dell’Onu, António Guterres, vorrebbe imporre una tassa ad hoc. Gli Emirati hanno dato l’esempio con un finanziamento da 100 milioni di dollari, seguiti dall’Ue – 225 milioni di cui 100 sborsati dalla Germania –, dalla Gran Bretagna – 75 milioni –, dal Giappone – 10 milioni – e dagli Usa, 24,5 milioni. Cifra quest’ultima ben al di sotto delle attese che rivela la diffidenza di Washington verso l’iniziativa, a cui si era opposta fino all’ultimo a Sharm el-Sheikh. In poche ore, comunque, il fondo ha avuto quasi 430 milioni di dollari in totale. Ammontare, in ogni caso, simbolico rispetto alle reali necessità. «Si tratta di un segnale di disponibilità. I Paesi vulnerabili hanno accettato compromessi su molti fronti, incluso il contenuto del fondo, modellato sulle richieste delle nazioni ricche. A cominciare dall’allocazione presso la Banca mondiale invece della creazione di una nuova istituzione. Almeno, però, tutto il Sud del mondo ha accesso ai finanziamenti e non solo i più fragili. A fronte di una grande disponibilità, le nazioni povere stanno, però, ottenendo poco. Nel 2021, l’ultimo anno per cui sono disponibili dati, i finanziamenti per l’adattamento sono diminuiti a soli 21 miliardi di dollari. Almeno dieci volte in meno di quanto occorre, stimato tra 215 e i 387 miliardi di dollari annuali fino al 2030», spiega Nisha Krishnan, esperta del World resources institute (Wri). Sulla stessa linea Madeleine Diouf Sarr, presidente del gruppo delle 46 nazioni tra le più povere: «Il fondo ha un enorme significato per la giustizia climatica. Ma se resta vuoto non ci può aiutare».
Il suo significato politico è, comunque, cruciale. Jaber ha voluto evitare di ripetere l’errore dell’anno scorso quando il duello sul fondo aveva creato un divario insormontabile tra Nord e Sud del mondo, bloccando l‘adozione di misure stringenti sul contenimento delle emissioni, al fine di mantenere le temperature entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi. L’obiettivo della Cop28 è rilanciare l’ambizione in un momento drammatico. Già quest’anno – il più caldo di sempre secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale – si è arrivati a +1,4 gradi. «L’umanità è in guai seri – ha detto nel video-messaggio di apertura, Guterres –. Stiamo vivendo il collasso climatico in tempo reale e l'impatto è devastante». Da oggi, le parti dovranno concentrarsi su che cosa fare per arginare la catastrofe. E questo implica il nodo dei combustibili fossili. Oltre 80 Paesi vorrebbero includere la loro «eliminazione graduale» nel documento finale. Non sarà facile per il vertice ospitato da una petro-potenza anche se il “sultano presidente” è apparso possibilista: «Tutte le opzioni devono essere discusse». Oggi e domani i discorsi dei capi di Stato e di governo daranno le prime indicazioni. A loro si è rivolto papa Francesco, impossibilitato a viaggiare per ragioni di salute. Su Twitter ha rilanciato una frase della Laudate deum: «Speriamo che quanti interverranno nella Cop28 siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna".



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