venerdì 27 ottobre 2017
Il presidente ha rinunciato a convocare le elezioni, lasciando tutto nelle mani del Parlament. Che è riunito in contemporanea con il Senato di Madrid
Puigdemont sceglie: voto o indipendenza
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I media ne hanno avuto un assaggio il 10 ottobre. Quando l’attesa dichiarazione di indipendenza catalana è stata rinviata, proclamata e, infine, congelata una manciata di secondi dopo. Cronisti ed esperti sono rimasti con il fiato sospeso fino all’ultimo. Alcuni, al termine della lunga giornata, faticavano ancora a mettere insieme i pezzi di quanto accaduto. Lo smarrimento di quelle ore convulse è ben poca cosa rispetto alla maratona di annunci e smentite che si sono susseguite, ieri, a Barcellona. Il giorno “tachicardico” s’è concluso con un ritorno al punto di partenza. Ovvero al programma fissato fin all’inizio della settimana. Il Parlament, l’Assemblea regionale catalana – la cui plenaria è iniziata ieri sera –, risponderà oggi alla minaccia della sospensione dell’autonomia proposta dal governo spagnolo. In contemporanea, il Senato di Madrid deciderà sul via libera alla misura. Eppure, la mattina si annunciava risolutiva.

Dopo una nottata in bianco per il gotha secessionista, chiuso fino all’alba nel Palau della Generalitat (il palazzo dell’esecutivo catalano), l’ipotesi delle elezioni anticipate aveva preso quota. Per tale scenario premeva – e continua a premere – l’ala più moderata dell’indipendentismo, sostenuta dal settore imprenditoriale, dal Partito socialista (Psoe) e dal Partito nazionalista basco. Proprio questi ultimi, attraverso i “baroni” catalani Miquel Iceta e José Montilla e il governatore basco Iñigo Urukullu, hanno fatto la spola, in una serie di conversazioni “riservate”, tra il presidente, Carles Puigdemont, e il premier Mariano Rajoy per trovare una via d’uscita “last minute”.

Un equo scambio, secondo i mediatori, sarebbe stato quello “voto per non-commissariamento”. Cioè un passo indietro di entrambi i contendenti. Puigdemont avrebbe indetto consultazioni regionali anticipate. Per contro, Rajoy avrebbe rinunciato a “mettere sotto tutela” la Catalogna, con l’applicazione dell’articolo 155. Un emendamento ad hoc era stato appositamente presentato dal leader socialista, Pedro Sánchez. Ad un certo punto, verso il pomeriggio, le trattative sembravano essersi concluse con successo. La convocazione del voto catalano appariva imminente. L’annuncio di Puigdemont, previsto alle 13.30, è stato rinviato di un’ora. Quindi rimandato a data da destinarsi, per poi venire riprevisto alle 17. I media davano per certa perfino la data: mercoledì 20 dicembre. Riprova di ciò era l’ira dei settori duri del separatismo.

La Candidatura d’unitat popular (Cup) ha iniziato a lanciare messaggi furibondi sui social, mentre vari delegati annunciavano le dimissioni. Una folla di studenti universitari s’è precipitata in Plaza San Jaume, di fronte alla Generalitat, per sostenere l’indipendenza. L’alternativa allo “strappo”, però, a pochi minuti dalle 17, era ormai colata a picco, come l’indice azionario in una giornata storta. Parallelamente, la Borsa spagnola compiva un balzo in avanti, con punte del 3 per cento.

Le consultazioni sembravano a un passo. Specie dopo la conferma dei popolari – non ufficiale –, di essere disponibili ad accettare la “sospensione della sospensione” proposta da Sánchez. Quindi, d’improvviso, il dietrofront. «Non c’è nessuna garanzia che giustifichi le elezioni», ha tuonato il presidente catalano nell’intervento dal Palau. Puigdemont ha detto di essere stato sul punto di indirle ma di aver dovuto fare marcia indietro a causa dell’intransigenza di Madrid. Immediatamente le “quotazioni” dell’ipotesi indipendenza sono schizzate verso l’alto. In realtà, il leader catalano non si è pronunciato.

«Sulla questione della secessione deciderà il Parlament». Madrid e Barcellona, dunque, si sono ritrovate a “ripartire dal via”. Prima è cominciata la riunione preparatoria in Senato sull’articolo 155, in vista del voto odierno. A presentare la proposta da parte del governo, è stata la vice-premier Soraya Saenz Santamaría. «Contrariamente ai proclami, l’esecutivo catalano non è disposto a dialogare», ha detto. Nel corso della discussione, è stata accantonata la mozione socialista volta a bloccare il commissariamento in caso di convocazione del voto regionale. È passato, però, un emendamento ambiguo che prevede una sospensione graduale dell’autonomia, reversibile «a seconda delle azioni della Generalitat».

Nel mentre, a Barcellona, il Parlament ha dato il via alla maratona che potrebbe portare allo strappo come alle elezioni anticipate. La prima eventualità s’è rivalutata proprio come un titolo azionario. Facendo, così, chiudere in perdita la borsa reale. Tanto più che in tarda serata la figura più cauta della giunta – e ostile alla secessione unilaterale –, il consigliere dell’Economia, Santi Vila, ha lasciato l’incarico.


Le due possibilità – voto e indipendenza – competono ora testa a testa nella corsa verso la porta in fondo al labirinto. Oltre la soglia c’è la via d’uscita o l’orlo del precipizio. O, forse, solo, un nuovo dedalo di viuzze, in attesa del colpo di scena.

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