giovedì 6 agosto 2009
Traffico caotico, bazar chiassosi, negozi provvisti delle ultime novità tecnologiche, ma anche divisioni, barriere e posti di blocco che si moltiplicano per limitare il terrorismo settario che non molla la sua presa Solo la blindatissima «zona verde» è ancora un’isola felice.
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Proprio quando ci si trova nel mezzo di una delle mille strade di Baghdad, si sperimenta quel contatto intimo tra il desiderio di scomparire e l’implacabile concretizzarsi della paura. Soprattutto quando quelle parole d’avvertimento ricevute da una fonte diplomatica o militare, senza volerlo, ti scavano dentro come un tarlo. Un ritornello malvagio si fa sentire e una funerea cornice lega i pensieri: «Fate attenzione, perché la situazione è pericolosissima. I nervi sono tesissimi e l’allarme è tornato altissimo». Sì, qualcosa è cambiato. Baghdad sta mutando: non è più il mattatoio degli anni di sangue del dopo Saddam Hussein. Ma è sempre una città su cui volteggia la mano nera della morte, dei rapimenti e delle bombe a tradimento.Il traffico caotico, i bazar chiassosi, i negozianti di elettronica che sono tornati a esporre sui marciapiedi ogni bendiddio; e poi ancora, al di là del colore giornalistico sui night-club che riaprono alla danza del ventre, i locali che vendono whisky, sempre esistiti, e le gang di rapinatori stile Al Capone, novità importata, sono comunque tutti segni che marcano quella voglia di vita che vuole spingersi avanti.Andando tra la gente si raccoglie il desiderio di liberarsi dal giogo, dalla sudditanza alla violenza, lo si sente e lo raccontano tutti; anche se l’incognita e la rovina di una grande guerra civile è sempre in agguato dietro l’uscio di ogni famiglia irachena.Mentre il Paese, ogni giorno, trasuda tonnellate di petrolio esportato, la "libertà" ricevuta ancora non riesce a garantire ai suoi cittadini l’energia elettrica per tutto il giorno, e neppure acqua corrente dai rubinetti di casa. Intanto il segno più evidente e orribile che emerge inesorabile è l’estrema povertà. Una parola che in Iraq era quasi sconosciuta: fame, malattie e infezioni uccidono e non più solo le fasce deboli.Ma c’è un aspetto di Baghdad che colpisce più di ogni altro. Non è il frastuono ininterrotto di decine di migliaia di generatori di corrente, è la Madet al judran, la città dei muri. Quella che è cresciuta dappertutto, per cercare di contenere la violenza settaria. Stragi che non hanno risparmiato nemmeno i più piccoli e le donne. Sulla loro fine si raccontano storie orribili; prima che sorgessero decine di ghetti, i confini erano segnati col sangue ancora fresco delle vittime: sciiti da una parte, sunniti appena al di là della strada. Tutto ciò solo un anno fa. La vendetta è entrata anche nella vita di bambini, le future generazioni, che una volta giocavano a pallone senza domandarsi a quale gruppo si appartiene.Una violenza degenerata che non ha risparmiato le minoranze, come i cristiani. Vittime a casa loro, costretti all’esodo, e non solo per non diventare i bersagli designati dei sequestri a scopo di estorsione, senza più ritorno. Baghdad è diventata un sistema di controllo fatto di centinaia di posti di blocco. Polizia e Forze di sicurezza nazionali irachene, equipaggiate, armate e vestite dall’esercito Usa, da un mese hanno sostituito fisicamente e militarmente le truppe americane. Presenza che nel 2011 dovrebbe ammainare la propria bandiera dal Paese.Il sole implacabile coi suoi cinquanta gradi arroventa le carrozzerie delle automobili, sempre a passo di lumaca, e noi passeggeri non possiamo che farci sempre più piccoli sul sedile per scrutare fuori e tentare di capire se l’automobilista che ci segue o il giovane che passa spingendo un carretto stipato di bombole del gas siano – per via di quel tic nervoso o per la lunga barba nera – i prossimi attentatori suicidi.Anche la notte porta i suoi incubi, e il riposo è qualcosa di complicato per chiunque, quando i lampioni restano spenti, sotto le antiche volte ottomane della città. Lo sa bene il cassiere della locanda che ci ospita, nella discrezione di un piccolo quartiere che protegge le proprie vie d’accesso con blocchi di cemento e uomini armati: «Quanti giorni pensate di restare?». Per poi, gentilmente, chiederci d’essere saldato in anticipo: «Perché... non si sa mai». I corrispondenti internazionali vivono da reclusi in aree residenziali protette da garitte e guardie armate. Solo i giornalisti locali controllano e verificano le informazioni sul terreno.Qui i vip di un certo peso, sia quelli in divisa militare, sia gli uomini d’affari, con le loro ventiquattrore di pelle nera e contratti petroliferi o d’armi, per spostarsi sfruttano il cielo dell’Iraq. Soprattutto i businessmen: quando atterrano all’aeroporto, per raggiungere i palazzi del potere, salgono su un elicottero, blindato e armato, con le insegne di una nota compagnia di sicurezza privata americana, che sarà seguito da un secondo mezzo d’appoggio. Quei cinque chilometri di volo, per non pensare ai pericoli della strada e non odorare montagne di rifiuti abbandonati ovunque, costano 25mila dollari.Gli americani allentano la presa, gli iracheni prendono il controllo del Paese, ma le società Pmc, Private military companies, come oggi si preferisce abbellire la parola "mercenari", sono più di 320, con migliaia di dipendenti. L’altra Baghdad è prosaicamente chiamata "Green zone". La cittadella dove nulla manca e tutto si trova. Nata sulle rovine di quella che era la preziosa residenza di Saddam Hussein, al di là del fiume Tigri. Con i suoi palazzi di marmo italiano, il suo ospedale, i suoi giardini, i suoi laghetti e il suo zoo, i suoi musei. Ora la "zona verde" accoglie i palazzi del governo iracheno e le residenze diplomatiche straniere e le truppe Usa. Una prigione dorata dove non mancano i ristoranti o le solite pizzerie americane né l’acqua potabile e azzurra. Chi lavora nella "zona verde" può restarvi anche tre anni senza avere mai messo il naso a Baghdad, la "zona rossa". Ma chi dalla città vuole entrare nel settore diplomatico deve svegliarsi prima dell’alba. Si accede in fila indiana, solo con speciali permessi olografici e dopo accuratissimi controlli. Come ci è capitato: più di sei perquisizioni in 300 metri di tragitto percorso zigzagando tra alte pareti di cemento armato anti-mortai. A piedi e con i propri oggetti personali, pure i fazzoletti di carta, contenuti in una padella di plastica rosa. Alla fine del "tour" è compresa la scannerizzazione ai raggi X del proprio corpo. Come sono previste la scansione delle pupille e le foto segnaletiche del volto in sei posizioni diverse, con l’aggiunta d’un numero infinito di varianti delle proprie impronte digitali, prima di poter ricevere la "carta di identificazione", che vale più del passaporto. È sempre e solo una questione di muri, appunto:  Madet al judran.Mancano ancora mesi alle elezioni del gennaio 2010, ma non solo gli occhi di una campagna politica che si prevede pesante sono già puntati su quella data. Le bombe contro le chiese cristiane, le moschee sciite e sunnite, fatte deflagrare con sistematica puntualità e coreografia, la diffusissima corruzione politica, l’emergere di fenomeni legati a mafia e gangsterismo sono solo alcune delle cicatrici di una ferita che ancora non riesce a chiudersi. Ahlan wasahln, bentornato: è qualcosa di più di un saluto quello che riceve l’ospite straniero che ritorna in Iraq. Spontaneo è rispondere: c’è stato qualche cambiamento positivo in questi anni? La risposta è uno sguardo come di chi vedesse un marziano caduto qui da un universo lontano.
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