giovedì 19 giugno 2025
Dal 1988, il premio Nobel guida la voglia di democrazia dei birmani. La sua immagine appannata dalle critiche per aver "coperto gli atti di genocidio” dei militari contro la minoranza rohingya
Il bacio a Suu Kyi del figlio Aris nel giorno del compleanno nel 2011

Il bacio a Suu Kyi del figlio Aris nel giorno del compleanno nel 2011 - Ansa

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Ha tagliato il traguardo degli ottanta anni, Aung San Suu Kyi, la donna che dall’agosto 1988 guida la voglia di democrazia dei birmani, prima negata dai regimi militari che hanno governato il Myanmar dal 1962 al 2010 e di nuovo sconfessata dal primo febbraio 2021 quando i generali hanno ripreso il potere, spodestando il governo civile liberamente eletto.
La prima parte del suo impegno è stata pagata con 15 anni in carcere o agli arresti domiciliari, la seconda viene “scontata” ora in detenzione e segregazione in località note solo alla giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing. Lo stesso figlio minore, il 48enne Kim Aris, ha ricordato che da circa due anni non riceve notizie dirette dalla madre.
Il tentativo del regime è duplice e contraddittorio. Da una parte i militari continuano a sottoporre la premio Nobel a processi che, finora, le hanno portato la condanna a 27 anni di carcere per corruzione e per violazione delle restrizioni anti-Covid. L’obiettivo è evitare che la leader possa tornare in libertà e riprendere direttamente la guida del movimento di opposizione. Dall’altra però, proprio la detenzione e la minaccia di un suo prolungamento indefinito, sarebbero strumenti di pressione per convincerla ad associarsi al potere nel clima di «vera democrazia» che dovrebbe nascere da elezioni «libere e giuste». Elezioni previste non prima della fine dell’anno. Una possibilità quest’ultima che tanti tendono a escludere, anche coloro che all’estero l’hanno criticata in passato per avere permesso gli «atti di genocidio» dei militari contro la minoranza musulmana rohingya.
Le critiche hanno, sicuramente, alienato molte simpatie, anche di altri Nobel che avevano chiesto di toglierle il riconoscimento concesso per la Pace nel 1991. D’altra parte, un disconoscimento del ruolo di Aung San Suu Kyi renderebbe ancora più facile il tentativo di delegittimarla e con esso il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, che dopo avere gestito il Paese durante la parentesi democratica e parlamentare tra il 2011 e il 2020 ha ora un ruolo di primo piano nel Governo di unità nazionale che in clandestinità ha organizzato strutture amministrative parallele e coordina una parte consistente della resistenza. Una compagine eterogenea che controllerebbe oltre la metà del Paese ma che manca della possibilità di garantire sicurezza e possibilità a una popolazione a cui sono negate risorse essenziali, continuamente assediata dalla supremazia aerea del regime e per quasi quattro milioni di individui priva ormai di abitazione e di mezzi di sussistenza propri.
A sua volta l’apparato militare, sempre più assediato, continua a limitare alle aree sotto il suo controllo il soccorso internazionale alla popolazione civile colpita tre mesi fa da un devastante terremoto.
«Difficile celebrare in questo momento. Abbiamo imparato a sopportare ciò che dura ormai da troppo tempo», ha dichiarato Kim Aris, impegnato negli ultimi otto giorni a correre per dieci chilometri quotidiani, ricevendo 80mila messaggi video di auguri idealmente destinati alla madre.
Oggi chi segue la vicenda della premio Nobel e cerca di non lasciare cadere l’attenzione per la sua sorte e per il confitto in corso in Myanmar non può che essere preoccupato per le condizioni di Aung San Suu Kyi. «Dalle informazioni della Suu Foundation, la leader birmana sarebbe rimasta ferita nel carcere che sarebbe stato danneggiato dal violento sisma che ha colpito il Paese il 28 marzo scorso. Gli avvocati della leader birmana hanno dichiarato di avere «seri motivi per temere che possa morire in carcere mentre il mondo rimane indifferente», ricorda l’associazione Italia-Birmania insieme.

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