venerdì 21 maggio 2010
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Secondo molti osservatori, la soluzione militare di una situazione che si sarebbe dovuto evitare si concretizzasse nel centro della capitale, ma che invece si è lasciata crescere fino a degenerare per poi reprimerla in modo confuso e – secondo le testimonianze – eseguito per lasciare un marchio indelebile di paura, ha infilato il Paese nel tunnel della guerra civile. La parola nel campo delle Camicie rosse sconfitte sotto i simboli del benessere costruito anche sulla pelle e sull’ignoranza di una fetta consistente della popolazione, è passata ora agli “orfani” del generale Khattiya Sawasdipol, il «Comandante rosso» ucciso da un cecchino la scorsa settimana. La sua morte è stata seguita da una reazione immediata. Da un lato i suoi sostenitori, i sottoposti nell’organizzazione dell’“ala militare” delle Camicie rosse – le Camicie nere – hanno giurato vendetta promettendo il sacco di Bangkok dopo la presa di Ratchaprasong, dall’altro hanno accelerato i tempi per il loro ingresso nella clandestinità. Un esempio è l’uso relativo di armi e di esplosivi che si è visto durante la drammatica giornata di mercoledì. I “duri” avevano due possibilità: usarle davanti a una certezza di vittoria o conservarle per portarle con loro nella clandestinità avvicinandosi la sconfitta. E così è stato. Il nucleo dell’arsenale dovrebbero essere costituito dalle centinaia di armi abbandonate dai poliziotti e soldati in rotta la notte del 10 aprile, ma anche quelle che – poche settimane prima della calata su Bangkok dei “rossi” il 12 marzo – erano sparite da un deposito militare nel Sud del Paese: 600 fucili, granate e caricatori, sottratti da ignoti che erano entrati semplicemente forzando la serratura. La Thailandia è un Paese dove troppe armi girano con estrema facilità. Pensare che la legge, o anche una presenza militare consistente ma non motivata da una repressione, possa essere un ostacolo serio ad attività clandestine a scopo insurrezionale è utopia. Lo dimostra da sei anni la ripresa della guerriglia indipendentista della minoranza musulmana nel Sud, al confine con la Malaysia, che continua a mietere vittime nell’apparente difficoltà delle forze armate a controllare il territorio.Il territorio, la sua conoscenza, gli appoggi e le connivenze che garantisce, ancor più quando ospita la maggioranza della popolazione nazionale, è appunto l’elemento su cui un movimento ribelle potrebbe puntare. Le province dell’Est e del Nord, serbatoio di voti per Thaksin Shinawatra e i suoi sostenitori – roccaforti delle Camicie rosse, ma anche crogiolo di risentimento e tensione – sono per un movimento ribelle territorio più favorevole della capitale in cui infilarsi nella clandestinità per emergere quando e dove riterranno opportuno. Sono anche aree frontaliere. E i vicini del Laos e della Cambogia sono omogenei linguisticamente e culturalmente: ampie aree di territorio thailandese oltre confine.Inoltre il premier cambogiano Hun Sen, nonostante l’offensiva diplomatica di Bangkok, non ha ancora sconfessato l’amicizia e la condivisione di interessi con Thaksin Shinawatra, che mesi fa è stato designato consigliere economico proprio dal governo di Phnom Penh. 
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