venerdì 19 aprile 2024
Per decenni Israele e Iran si sono combattuti a distanza, con l'aiuto di Paesi terzi o sotto copertura e con esecuzioni mirate. Ora si sono affrontati a viso aperto, dimostrando di potersi colpire
Uno degli impianti nucleari iraniani a Isfahan

Uno degli impianti nucleari iraniani a Isfahan - Ansa

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È ancora presto per dire se non ci sarà reazione di Teheran. Il tempo dei proclami era ieri, oggi quello della risposta che innescherebbe invece una guerra vera e propria. Ed è quello che però entrambi i Paesi non vogliono: uno perché ha gravi crisi interne, un'economica in ginocchio e un programma nucleare da completare, l'altro perché aprirebbe un ulteriore fronte di guerra dopo sei mesi di bombe e combattimenti a Gaza seguiti al raid del 7 ottobre di Hamas. Stamani il terzo attacco nel giro di meno di venti giorni, paradossalmente, potrebbe però chiudere il cerchio di uno scontro a viso aperto, come mai avvenuto in oltre quarant'anni di attacchi sotto copertura, per interposta persona (con i proxy regionali per quanto riguarda Teheran) e con azioni di commando, sotto falsa bandiera o con "vermi elettronici" come quelli condotti in questi anni da Israele e dal suo servizio segreto esterno.

Al punto più alto di una escalation regionale possibile potrebbe essersi creata, infatti, una condizione di "deterrenza dell'indifendibilità". Serve chiaramente una spiegazione. Il parallelo è con quella nucleare: lì la deterrenza si crea con l'armamento estremo reciproco e la consapevolezza che l'attacco devastante di uno coinciderebbe con quello dell'altro, a parità di tecnologia. Con l'annientamento di entrambi. In questo caso invece si è dimostrato, dall'"esecuzione" del primo aprile nel consolato a Damasco, all'attacco iraniano di sei giorni fa che ha portato il fuoco per la prima volta nei cieli della Città Santa fino alla risposta di questa notte, che un conflitto tradizionale di "offesa, difesa e rappresaglia" ora è tecnicamente possibile e provato. Adesso (seppure più prefigurando che realizzando, in una sorta di gigantesco "War game") entrambi hanno dimostrato che possono agire alla luce del sole o protetti dal buio nel Paese rivale. Tel Aviv ha dimostrato di poter azzerare il programma atomico degli ayatollah come fece nel 1981 nell'Operazione Babilonia contro il reattore iracheno di Osirqaq, l'Iran invece di essere in grado di superare le difese (anche se limitatamente) dello Stato ebraico. Soprattutto ora che, caduta l'ultima barriera, si comprende bene che cosa accadrebbe se si andasse oltre: la guerra.

Come in una gigantesca partita a scacchi regionale, i due giocatori sanno che in questo momento, nel giro di un determinato numero di mosse la "patta" è inevitabile. Ecco, oggi siamo in questa situazione. Potrà l'85enne guida suprema Ali Khamenei dimenticare che il suo compleanno è stato macchiato da un attacco (seppure altamente simbolico e in pratica inconsistente) da parte del "regime sionista" e non reagire in una girandola che si avvita su se stessa come una vite di Archimede? Sarà in grado Netanyahu di convincere le ali estreme del suo governo che ora la partita con Teheran va congelata, magari in cambio del via libera da Biden (mai ammesso da parte americana) a concentrare lo sforzo finale a Gaza con il blitz a Rafah, dove centinaia di migliaia di palestinesi sono sfollati ma dove secondo l'intelligence israeliana si nasconde tra gli scudi umani anche la leadership di Hamas? Nelle prossime ore una risposta a entrambi i quesiti dovrà arrivare. Anche se, alla fine della fiera, a livello internazionale chi ne esce più rafforzato dal punto di vista della “moderazione” in tutta la vicenda (di facciata) è il regime islamico.

Poi si tornerà a parlare del nucleare iraniano che Israele non ammetterà mai possa essere implementato fino alla bomba, della nuova geopolitica che questa situazione sta instaurando nel Medio Oriente, degli equilibri di potere nuovi che si sono creati nel fronte arabo. Poi. Tutto dopo le due domande e le due risposte di Khamenei e Netanyahu.

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