domenica 15 marzo 2009
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La recessione globale ha anche un volto africano. A dispetto delle speranze iniziali di chi sosteneva che la crisi avrebbe risparmiato un continente in larga parte marginale rispetto ai mercati mondiali, il terremoto economico in corso a livello internazionale sta mietendo le sue vittime anche a Sud del Sahara. Nel Katanga, provincia sud-orientale della Repubblica democratica del Congo e cuore minerario del Paese, una cinquantina di fabbriche per la prima lavorazione dei metalli hanno chiuso in pochi mesi, mentre secondo il governatore locale sono già circa 300 mila i nuovi disoccupati nella regione. Nelle sterminate foreste congolesi, che custodiscono circa il 34% delle riserve planetarie di cobalto e il 10% di quelle di rame, il calo drastico delle quotazioni dei due minerali (ridotte a un terzo in cinque mesi) non ha lasciato scampo: secondo il governo di Kinshasa, nei prossimi mesi la produzione di rame diminuirà tra il 30 e il 40%, mentre sono state dimezzate le previsioni delle esportazioni di cobalto per il 2009. Intanto, la sudafricana De Beers sta valutando la chiusura di alcune miniere di diamanti, un’altra delle risorse naturali del Congo. La caduta dei prezzi nel settore minerario ha inferto un duro colpo anche ad altri Paesi che stavano puntando sull’industria estrattiva per rilanciare economie in crisi, come lo Zambia e la Guinea. Proprio qui, il colosso australiano Bhp Billiton ha rinunciato alla mega fusione con la britannica Rio Tinto per lo sfruttamento del giacimento ferroso di Simandou, a causa della recessione e della riduzione della domanda cinese. Non va meglio per altre materie prime che hanno visto le quotazioni crollare – in testa il petrolio – o i mercati contrarsi bruscamente: in Centrafrica, uno dei Paesi più poveri del pianeta, l’emergenza si è ulteriormente intensificata dopo che i ricavi del legname, principale voce di esportazione, si sono ridotti del 20%. E il ciclone non ha risparmiato i mercati africani: le principali borse del continente, dall’Egitto alla Nigeria fino al Sudafrica, hanno collezionato in questi mesi ribassi storici, con Johannesburg che ha superato -20% e Nairobi che ha toccato addirittura ­54%. In questo quadro generale, il Fondo monetario internazionale ha corretto al ribasso - dal 6,5% al 5,1% - le previsioni per la crescita africana nel 2009. C’è più di un motivo, insomma, per preoccuparsi. Non ultimo, il timore che le nazioni ricche, in preda alla recessione, stringano i cordoni della borsa. «Nei prossimi anni - ha affermato il presidente della Banca africana per lo sviluppo Donald Karebuka - è verosimile che gli aiuti allo sviluppo non saranno considerati una priorità». Puntualmente, al forum di Davos il premier britannico Gordon Brown ha previsto che il credito ai Paesi emergenti, che due anni fa ammontava a mille miliardi di dollari, crollerà nel 2009 a 150 miliardi. Al recente vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba, alcune ong hanno lanciato l’allarme, sostenendo che la riduzione degli aiuti occidentali ai Paesi africani costringerà questi ultimi a tagliare ulteriormente le spese sociali. Segni preoccupanti di contrazione sono già stati mostrati da un’altra voce di bilancio vitale per numerose nazioni africane, spesso superiore agli introiti della stessa cooperazione: quella relativa alle rimesse garantite alle comunità di origine dai tanti migranti che lavorano nei Paesi ricchi, oggi in preda a una disoccupazione crescente. In Kenya - solo per fare un esempio - lo scorso agosto il flusso di denaro inviato a casa dai cittadini emigrati si era già ridotto del 38% rispetto allo stesso mese del 2007. Una situazione allarmante di fronte alla quale il continente cerca di correre ai ripari. Rinnovando, tra l’altro, il proprio appello al Nord del mondo affinché rispetti gli impegni presi: qualche giorno fa, la vice presidente della Banca mondiale per la regione africana Obiageli Ezwkwesili ha rilanciato l’esortazione del presidente Zoellick ai Paesi donatori a destinare lo 0,7% dei propri pacchetti di incentivi a un Fondo di vulnerabilità per l’Africa. Il continente, tuttavia, è pronto a prendersi le proprie responsabilità e a inventarsi nuove strategie di rilancio. Il piano anticrisi presentato ad Abuja dai capi di Stato e di governo della Comunità economica dell’Africa occidentale punta su forti investimenti per migliorare le infrastrutture, soprattutto nei settori dei trasporti e delle energie anche rinnovabili. Da parte sua, il ministro delle finanze ugandese Ezra Suruma ha invitato i suoi omologhi di 19 nazioni a «cercare mercati alternativi ai nostri prodotti» e «accrescere le esportazioni verso i Paesi asiatici», a cominciare da India e Cina. Ma sono in molti a pensare che la soluzione dell’attuale impasse vada cercata in un nuovo corso economico all’interno dei confini del continente. «La crisi deve essere messa a profitto per fare emergere delle economie regionali africane: dobbiamo spingere verso l’integrazione», ha affermato il ministro gabonese dell’energia Casimir Oyé Mba. Per un continente con solo il 10% di esportazioni rivolte verso l’interno - mentre l’Asia commercia con l’Asia per il 50% e l’Europa con l’Europa al 70% - la grande sfida di oggi è la creazione di un mercato inter­africano. La crisi potrebbe allora essere anche un’opportunità per vedere un’Africa più unita, che punta a parlare - almeno economicamente - a una sola voce.
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