sabato 21 marzo 2020
Primi due contagi nell’isola che non ha un sistema sanitario Minacciata l’economia informale da cui dipendono 140 milioni di persone deboli nella regione
Anche nel centro della capitale peruviana Lima sono stati limitati i contatti tra le persone

Anche nel centro della capitale peruviana Lima sono stati limitati i contatti tra le persone - Ansa

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Il 26 febbraio l’America Latina ha scoperto di non essere più immune dalla pandemia globale: un 61enne di San Paolo, in Brasile, è risultato positivo al test del coronavirus. Undici giorni dopo, il 7 marzo, la prima morte: un 64enne appena rientrato dalla Francia si è spento a Buenos Aires. Il Covid–19 ci ha messo poco più di tre settimane per estendersi in tutto il Continente, in cui si contano ormai 1.900 contagiati e 19 decessi. L’ultima a capitolare è stata Haiti dove ieri sono stati individuati i primi due casi. Non è detto, però, che il virus non ci fosse da prima. Nel Paese più povero dell’Occidente, in emergenza sanitaria permanente, non esiste, di fatto, un sistema di salute nazionale. A farsi carico della cura dei malati sono le cliniche di Ong e Chiese. In queste condizioni, dunque, è arduo individuare possibili infettati e focolai. E ancor più curarli. Un problema comune a varie nazioni latinoamericane. Con 946 dollari a persona, la regione ha un tasso di investimenti in salute più basso perfino della media africana e mediorientale. La diseguaglianza nell’accesso all’assistenza sanitaria è feroce. Il numero dei malati, dunque, potrebbe essere «sottostimato», come afferma Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia (Msf ), ora impegnata nell’intevento a supporto della Asl di Lodi. A questo si aggiunge una questione non di poco conto: l’economia informale da cui dipende la sopravvivenza di 140 milioni di latinoamericani.

In pratica, una lavoratore su due non ha un contratto ma vivacchia grazie a impieghi saltuari come ambulante, lustrascarpe, raccoglitore di rifiuti. Per non parlare degli impieghi in nero nelle costruzioni e nel settore delle pulizie. Le restrizioni alla mobilità, data l’impossibilità legale di giustificare la necessità dello spostamento, li sta condannando alla miseria. Un macigno sulle spalle di una regione che ha già oltre 190 milioni di poveri. Primo nella tragica classifica degli infettati – 529 – è il Brasile dell’ex negazionista Jair Bolsonaro. Per settimane, il presidente ha definito il virus «una fantasia». Nemmeno il contagio di un esponente della delegazione con cui si era recato a Miami dall’omologo Donald Trump e il fatto di essere stato sottoposto al tampone gli avevano fatto cambiare idea. Tanto che le amministrazioni statali di Rio de Janeiro e San Paolo avevano forzato per prevedere la sospensione degli atti pubblici e delle lezioni. Poi, due giorni fa, l’improvvisa inversione di rotta: il governo ha decretato la chiusura delle frontiere terrestri per quindici giorni. In un impeto di zelo, il presidente voleva chiudere anche quella con il Cile che, però, non esiste poiché i due Paesi non sono confinanti.

Quest’ultima nazione, con 342 positivi, è la seconda per contagi del Continente. A preoccupare le autorità, il rapido incremento con un balzo di cento nuovi casi tra mercoledì e giovedì. Finora, inoltre, sono stati individuati quattro focolai dell’infezione. Ma, per tre persone l’origine non è tracciabile. Questo ha spinto il governo di Sebastián Piñera a dichiarare lo stato di calamità per 90 giorni, in cui il presidente potrà adottare misure di confinamento della popolazione. Proprio in Cile, inoltre, l’epidemia rischia di avere conseguenze politiche pesanti. Le autorità sono state costrette a rinviare il referendum sulla Costituzione, previsto per il 26 aprile, al 25 ottobre. La richiesta di cambiare la Carta fondamentale, approvata durante la dittatura, è stata uno dei motori della rivolta esplosa a ottobre e mai rientrata a causa della radicalizzazione di una parte del movimento. Ora, lo slittamento potrebbe riaccendere le proteste. I governi latinoamericani stanno reagendo con modalità estremamente variegate. Si va dalla “linea italiana” dell’Argentina – che, ieri, ha deciso la quarantena obbligatoria per tutti gli abitanti fino al 31 marzo – al no pasa nada (non accade niente) del Nicaragua. Il presidente Daniel Ortega continua a ripetere che il sistema sanitario nazionale è perfettamente preparato all’emergenza. Addirittura, lo scorso fine settimana, in barba alle indicazioni degli esperti, la vice e moglie, Rosario Murillo, ha organizzato un’affollata quanto inutile marcia cittadina contro il coronavirus.

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