giovedì 28 ottobre 2021
Si spendono in armamenti 400mila dollari al minuto. Quattro scenari in ebollizione: anche in Medio Oriente e in Africa
Alta tensione su Taiwan. E dall'Asia riparte la corsa alle armi

Ansa

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L’ultimo scontro a distanza si è consumato ieri. Con la Cina che ha replicato a muso duro alla “fuga in avanti” del segretario di Stato Usa, Antony Blinken che aveva auspicato una maggiore partecipazione di Taiwan nell’ambito Onu. Il portavoce del ministero degli Esteri cinesi Zhao Lijian non ha usato giri di parole, ventilando il rischio di un «effetto dirompente» sui rapporti bilaterali tra i due Paesi se Washington continuerà a usare la «carta di Taiwan».

Il “confronto” tra Cina e Usa cade in un momento di alta tensione, segnato dalle incursioni (sempre più massicce) dei caccia cinesi nei cieli di Taiwan, le minacce velate da parte di Pechino che non intende retrocedere dal mantra della «riunificazione», dalle repliche altrettanto irate di Taipei che fa sapere che «non cederà». Un conflitto spalancherebbe uno scenario da incubo, con gli Stati Uniti che promettono di scendere in campo al fianco dell’isola “ribelle”. (Lu.Mi.)


La tensione nel Sudest asiatico, Taiwan e Mare della Cina meridionale, ha rimesso in pieno movimento un mercato che muove cifre da capogiro. Spesso in maniera opaca e fraudolenta. Il commercio mondiale delle armi è tornato ai massimi livelli. Vale oltre 110 miliardi di dollari. Galvanizza profitti che sfiorano i 392 miliardi di dollari. Ogni minuto, i mercanti di morte incassano 400mila dollari. Al giorno, fanno 900 milioni.

Le transazioni legali sono difficili da soppesare: conosciamo solo il valore delle licenze finali, ma intorno ad esse danza spesso un mare di denaro oscuro, sotto forma di tangenti, che per eufemismo si fanno passare per spese commerciali eccezionali. Talvolta emergono scandali, come nel caso delle mazzette pagate dai francesi di Giat Nexter agli emiratini per la vendita di carri armati Lecrerc, visti in guerra in Yemen. I casi sono tanti: dall’affare Karachi, al dossier Agusta-Dassault, passando per le fregate di Taiwan. Gli affari sono spesso segreti e viste le somme in ballo, il settore delle armi è profondamente corrotto. Alimenta “retro commissioni”, finanziamenti ai partiti politici, giochi di specchi: il 40% della corruzione che affligge il commercio internazionale è legato alle armi. Produttori e mercanti non sono i soli a reggere le fila. Ci sono giochi di influenza: spesso alle transazioni partecipano Paesi partner per agevolare la segretezza delle trattative e accattivarsi i favori politici dei beneficiari. L’Azerbaigian ne è un buon esempio. La sua compagnia aerea Silk Way Airlines ha messo a disposizione voli privati che hanno affiancato i cargo dell’aeronautica militare azera per trasferire innumerevoli partite di armi, sotto la copertura del trasferimento diplomatico. La gran parte delle armi era americana, finita in mano a gruppi coinvolti nella guerra siro-irachena. Baku ha fatto da sponda anche all’Arabia Saudita, che ha potuto vendere armi impunemente alla Repubblica democratica del Congo e al Sudafrica. Per l’Azerbaigian il gioco ingannevole era un modo per accattivarsi le simpatie degli alleati americano e saudita nel conflitto con l’Armenia. Ma il vantaggio è stato reciproco.

Gli americani e i sauditi hanno aggirato i radar e la sorveglianza internazionale, depistando le Nazioni Unite. Il caso mostra quanto sia difficile avere dati certi e immediati sul commercio reale delle armi. Il mercato settoriale viaggia sui binari di una concorrenza spietata. Per restare competitive, le aziende, spesso partecipate dai governi, devono garantirsi commesse oltreconfine: tutte le armi sono ormai concepite fin dall’inizio per essere esportate. Solo gli Stati Uniti hanno prodotti esclusivi per le loro forze armate, come i caccia intercettori F-22 e i sottomarini nucleari. Per il resto, c’è una guerra economica senza esclusione di colpi, come dimostra il caso dei sommergibili franco-australiani. Sono almeno 1.650 le aziende che producono e vendono armi. Ma il 76% del commercio è un affare dei colossi statunitensi, russi, francesi, tedeschi e cinesi. Gli americani valgono da soli il 37% dell’export totale, i russi il 20%. Ma c’è un fenomeno nuovo. In valore assoluto, il commercio delle armi è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, se paragonato al quinquennio precedente. Stanno emergendo industrie delle armi autosufficienti e la domanda si è stabilizzata. La Turchia è diventata quasi autonoma. Molti Paesi asiatici e l’Oceania hanno le stesse ambizioni.

Fatto preoccupante, si stanno affacciando potenze mercantili emergenti anche nel settore delle armi, se solo si pensi agli Emirati Arabi Uniti, alla Corea del Sud, al Brasile e a Israele (+15). I blindati e i droni turchi stanno conquistando l’Africa e l’Europa orientale. Emergono anche il Kazakistan e l’Azerbaigian, cui i sudafricani di Paramount hanno ceduto tecnologie e trasferito parte della produzione di blindati. I flussi mondiali seguono le rotte delle tensioni geopolitiche. L’Asia in fermento importa il 42% delle armi vendute a livello globale, seguita dal Medioriente (33%). Nonostante la pandemia, l’Europa ha aumentato le spese militari del 4% e fatto impennare l’import di armi (+12%), specie a Est. L’Africa è un caso a parte: le transazioni legali sono scese del 13%, ma sono schizzati verso l’alto i trasferimenti clandestini, in Etiopia, in Libia, in Centrafrica e in Congo. Dei 120 miliardi di dollari che ruotano intorno al mercato nero delle armi, 20 sono appannaggio dei Paesi africani, 50 di quelli asiatici. A Oriente, la modernizzazione delle marine militari e delle forze aeree è impressionante. C’è una proliferazione allarmante. Stanno arrivando nuovi cacciabombardieri, portaerei e sommergibili.

Le marine regionali stanno rafforzando le capacità di proiettare la forza più lontano, con maggiore letalità. Soffiano venti di guerra. Stati Uniti, Giappone, Australia, India, Taiwan e Corea del Sud hanno giganteschi programmi aeronavali per fronteggiare l’ascesa cinese. Pechino acquista ormai poche navi dalla Russia: i suoi cantieri nazionali stanno sfornando ogni quattro anni l’equivalente di una Marina Militare italiana. La Cina incute paura ed è diventata uno dei più agguerriti competitori sul mercato delle armi: due terzi dei Paesi africani usano oggi equipaggiamenti militari cinesi. Le richieste sono aumentate dell’88% nell’ultimo decennio. La guerra ha nuovi squali.

Quattro scenari in ebollizione

Pechino-Taipei. Lo stretto di Taiwan è una delle aree più militarizzate del pianeta. Le tensioni quotidiane potrebbero degenerare in uno scontro armato che coinvolgerebbe anche gli Usa. Le incursioni incessanti di velivoli cinesi nella zona di identificazione aerea di Taiwan sarebbero destinate a usurare il potenziale aereo dell’avversario, lasciandolo sguarnito in vista dell’assalto anfibio, ipotizzato dai più fra il 2024 e il 2025. Pechino sta rafforzando le basi missilistiche aeree a ridosso dell’isola. La Marina ha unità navali d’assalto in numero sempre maggiore. I preparativi sono costanti e quest’anno Taiwan ha varato un bilancio militare mai visto prima: 15,4 miliardi.

India-Pakistan. Il conflitto latente fra India e Pakistan intorno alla regione del Kashmir minaccia di riesplodere ciclicamente. Se le forze convenzionali pachistane, molto inferiori, fossero soverchiate da quelle indiane, Islamabad potrebbe ricorrere ad armi nucleari tattiche, costringendo gli indiani a replicare. Sia Dehli sia Islamabad stanno aumentando gli arsenali nucleari: la prima ha ormai 160 testate, la seconda ha raggiunto quota 165. Alcuni ricercatori dell’università Rutdgers hanno calcolato che se le armi avessero una potenza di 15 kilotoni, ucciderebbero almeno 50 milioni di persone. Più passano gli anni, più gli indiani e i pachistani stanno potenziando la dirompenza delle testate e la loro pericolosità.

Iran-Israele. È stato molto franco il capo di Stato maggiore israeliano, generale Aviv Kochavi: «Abbiamo pronti nuovi piani operativi» contro il programma nucleare iraniano. A decidere di eseguirli saranno ovviamente i politici. «Ma i piani sono sul tavolo». Se fallissero i negoziati sul nucleare di Teheran (la trattativa è in una fase delicata e ieri è stata annunciata dall’Iran la ripresa dei colloqui a novembre), il governo israeliano si sarebbe assicurata il via libera da Washington. Ha ricevuto dagli americani nuove bombe anti-bunker. I suoi caccia bombardieri F-35 Adir si stanno preparando ai raid in territorio iraniano. Gli israeliani si sono addestrati anche in Italia, a giugno, con noi e con gli americani. Hanno effettuato due sortite al giorno, simulando bombardamenti in scenari di forte contrasto antiaereo e combattimenti con velivoli nemici. L’Iran è avvisato.

Egitto-Sudan-Etiopia. Nuove manovre militari hanno coinvolto in questi giorni (prima del golpe a Khartum) reparti militari egiziani e sudanesi. I due Paesi hanno stretto un’alleanza di fatto in chiave anti-etiope, per la disputa sulla grande diga del Gerd. Se non si trovasse una soluzione di compromesso fra le parti, intorno al regime delle acque del Nilo potrebbe scatenarsi la prima «guerra per l’acqua». L’Egitto ha gli arsenali pieni: in 5 anni è diventato il terzo importatore mondiale di armamenti, con un incremento del 136%. Sta isolando diplomaticamente l’Etiopia. E ha rafforzato i rapporti non solo con il Sudan, ma anche con il Kenya, l’Uganda e il Burundi.

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